Dodici domande sulla mediazione al Ministro della giustizia


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Un vento propizio sembrava  confortare quanti hanno creduto nella mediazione dei conflitti: sono state le parole del Ministro della giustizia, Annamaria Cancellieri, che hanno indotto all’ottimismo.


Parlando alla Commissione Giustizia del Senato il 20 maggio 2013 – e, successivamente, alla Camera – il Ministro ha esposto il programma che ha approntato, iniziando con il precisare la propria opinione sul senso della giustizia: “Non saprei concepire la giustizia esclusivamente nei termini di erogazione di un servizio e riterrei riduttiva qualunque interpretazione che la confinasse in questa asfittica visione […] l’efficienza e la capacità di far funzionare la macchina amministrativa della giustizia rappresentano, indubbiamente, una questione decisiva nel processo di modernizzazione e di recupero di competitività del nostro Paese […] questo, però, non esaurisce la reale portata del tema che è, in definitiva, un tema di democrazia sostanziale: la capacità che ha lo Stato di operare in una prospettiva costituzionalmente orientata alla costruzione di una società giusta”.


Dopo questo esordio il Ministro indicava, fra le linee programmatiche, la mediazione: si può leggere tra le righe che essa venisse considerata una forma privilegiata per realizzare il senso ‘alto’ della giustizia, cui si richiamava, ed il conseguente esito deflattivo del carico di lavoro degli organi giudiziari sarebbe stato –finalmente!- solo un effetto, non più il fine principale del ricorso alle modalità extragiudiziali di composizione dei conflitti.


Sottolineava, infatti, il Ministro “lo strumento della mediazione […] si è rivelato di grande efficacia sotto il profilo dell’abbattimento del contenzioso civile, con un positivo effetto anche sul piano della composizione dei conflitti tra le parti”.


Sembrava che il Ministro mostrasse consapevolezza che il rinnovamento culturale richiesto dal ricorso alla mediazione non consiste soltanto nella reintroduzione della obbligatorietà prima di adire il giudice – come è ben noto cassata dalla Corte costituzionale per difetto di delega – ma deve essere corredato e sostenuto da una revisione radicale delle norme che l’hanno istituita, onde far tesoro, fra l’altro, dei punti nevralgici che la, pur breve, prassi ha messo in luce, evitando così di andare incontro ad ulteriori disillusioni, non imputabili a presunte debolezze di questo strumento alternativo alle vie giudiziarie, bensì alle carenze del disegno che ne ha accompagnato la disciplina.


Sempre con le parole del Ministro, “è uno strumento che evidentemente necessita di una metabolizzazione sul piano culturale; quindi, quanto più si riuscirà a sensibilizzare l’opinione pubblica sui positivi risultati indotti dall’adesione a tale meccanismo, tanto più ne trarrà giovamento la macchina dell’Amministrazione della giustizia civile”.


Prezioso questo sguardo verso la comunicazione agli utenti, i quali sino ad ora hanno conosciuto le sole strade della contrapposizione e della estremizzazione giudiziale delle posizioni personali, ma devono iniziare a considerare i vantaggi di una prospettiva di confronto, di ascolto delle ragioni della controparte, di ricerca costruttiva di soluzioni nel rispetto delle reciproche responsabilità, esigenze e bisogni.


Una rivoluzione culturale radicale e onerosa per chi si è strutturato nella logica dell’aut aut.
Senza contare, poi, che anche chi è stato chiamato a fare esperienza di mediazione raramente ha potuto sperimentarne la credibilità e l’autorevolezza necessarie all’operato del mediatore.


Ed infatti il Ministro sembrava non dimenticare che questa “conversione” del modo di procedere debba riguardare anche l’etica del mediatore: “ovviamente, la diffusione di tale strumento dovrà essere accompagnata da regole deontologiche e di incompatibilità serie e rigorose, dal rispetto di un principio di competenza, da una adeguata professionalità dei mediatori”.


Si è con certezza convinti, alla luce di prassi virtuose conosciute, che la mediazione potrà ottenere risultati anche superiori, come auspicato, rispetto a quelli che si possono ottenere con la giustizia ordinaria, ma occorre inventare, scegliere e sapere applicare modelli forti, di ‘nuova generazione’, capaci di far evolvere le posizioni delle parti e di dare reali risposte ai bisogni di giustizia che ogni cittadino reclama.


La revisione del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, quindi, avrebbe dovuto configurarsi su più livelli affinché non abbiano a ripetersi gli errori tanto frequentemente messi in luce nel triennio trascorso. Ma ciò non si coglie dal cosiddetto “decreto del fare”.


Il Ministro ha, implicitamente, sollecitato, sempre nella relazione programmatica al Senato, contributi al dibattito che deve accompagnare la riforma della mediazione, sia mediante apporti qualificati, sia tramite la valorizzazione delle esperienze virtuose presenti nel territorio: “come ministro della giustizia lavorerò […] con la più ampia disponibilità all’ascolto e al dialogo, ad un confronto pacato, aperto e attento, ad un’ ampia e condivisa valutazione con tutti i principali operatori del settore […] mi attendo che questa disponibilità venga pienamente compresa in uno spirito di rispetto, e di reciproca e leale collaborazione […] il mio sarà un atteggiamento laico e rivolto esclusivamente al merito dei problemi e alla ricerca della più ampia convergenza nell’individuazione di soluzioni utili a garantire la pienezza dei diritti dei cittadini, rafforzando credibilità e fiducia nella politica e nelle istituzioni”.


Non sappiamo se ciò è avvenuto o avverrà prima della definitiva conversione del disegno di legge, del cd. «Decreto Fare», comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il 15 giugno 2013 n. 9.
Pertanto, non sembra fuori luogo porre alcune domande al Ministro, su questioni che da osservatore coinvolto direttamente ho rilevato, che potrebbero anche costituire eventuale base di studio e di ricerca per un ponderato intervento di revisione della disciplina della mediazione.


Allo stato l’intervento appare superficiale e definitivamente affossa la portata della via alternativa alle logiche giudiziarie. La riduce ad un improbabile esperimento meramente conciliativo che ha possibilità di successo dove sostanzialmente è inutile, cioè per quelle questioni bagatellari che fisiologicamente si chiudono, che si instaurano con già la prospettiva di essere presto ritirate. A meno che non si voglia indurre e autorizzare interventi manipolativi che forzano le parti alla conclusione del loro conflitto, senza la loro volontà e con il sadismo di farlo risultare come esito di una loro decisione.


Il conflitto, ed ancor più il contenzioso, è una cosa seria per il cittadino che lo vive. Lo stato deve dare risposte serie al suo bisogno di giustizia. L’attuale decreto sembra essere una sostanziale negazione di questo diritto. Ci permettiamo quindi di richiedere al Signor Ministro come il nuovo intervento considera alcune questioni che appaiono, anche alla luce di quanto avvenuto nello scorso triennio, conditio sine qua non.


1) Quali sono i requisiti dei quali devono disporre i soggetti che, con l’accredito del Ministero offrono il servizio di mediazione?
1) Quali sono i requisiti dei quali devono disporre i soggetti che, con l’accredito del Ministero formano i mediatori?
3) Come rimuovere la cappa di ignoranza che ha soffocato le potenzialità di uno strumento veramente innovativo?
4) Quali ruoli competono alle associazioni dei consumatori, anche in vista dell’attuazione del regolamento e della direttiva adottati il 13 marzo 2013 dal Parlamento europeo?
5) Oltre alle tecniche che il negoziatore deve padroneggiare, quale deve essere la visione preliminare e complessiva delle relazioni e degli obiettivi che rilevano anche nella prospettiva sociale dell’access to justice?
6) E’ possibile giungere alla definizione della figura del mediatore assunta a riferimento, e sviluppare un serio pensiero sul significato del suo agire, affinché il suo essere davvero innovativo e alternativo non siano confusi con desuete prassi?
7) Come possono essere individuati i profili necessari alla definizione degli standard di qualità del servizio di mediazione affidato agli organismi accreditati? E’ sufficiente enuclearli mediante un questionario, come attualmente previsto, cui ogni interessato è invitato a rispondere esprimendo la propria opinione sull’esperienza ad oggi maturata di mediazione?
8) Il Ministero intende individuare ed imporre linee di indirizzo ed adeguati canoni qualitativi in funzione degli obiettivi che alla mediazione sono attribuiti?
9) Quale modello e quale metodo operativo si scelgono? Come si forma il professionista, per quanto tempo? E’ condizione di qualità – o di vincoli pericolosi – che il mediatore operi esclusivamente all’interno di un organismo, o è possibile ipotizzare anche un mediatore free lance al quale le parti possano rivolgersi direttamente, scegliendolo dal registro dei mediatori accreditati, considerato che il valore personale del mediatore e della fiducia che vi si ripone sono elementi determinanti il successo dell’intervento?
10) Non sarebbe opportuno istituire presso il Ministero uno specifico organismo di valutazione al quale affidare compiti di verifica e controllo tanto sugli organismi di mediazione, quanto sugli enti di formazione dei mediatori?
11) Il ‘costo’ direttamente sostenuto dalle parti per accedere alla giustizia, vale a dire il cosiddetto contributo unificato, potrebbe comprendere anche la fase del procedimento di mediazione, almeno nel caso in cui vi si faccia ricorso su invito del giudice?
12) Quali interventi organici e capillari possono ipotizzarsi per il radicamento della cultura della mediazione nel cittadino – ma altresì nell’avvocato e nel giudice – affinché essa non venga considerata un balzello in più prima di poter approdare al giudizio, ma trovi terreno fertile in quanto via alternativa ricca di vantaggi?
 

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Autore:


Formatrice alla mediazione dal 1995, giudice onorario presso la Corte d’Appello di Milano. Autrice di molti saggi sul tema, nel 2011 ha pubblicato Mediatore di successo, edito da Giuffrè. Ha insegnato Psicologia dei rapporti interpersonali presso l’Università Cà Foscari di Venezia dove ha anche coordinato il Corso di perfezionamento in Mediazione umanistica dei conflitti. E' l’ideatrice del metodo di gestione dei conflitti con la mediazione filosofico-umanistica.

2 Risposte a "Dodici domande sulla mediazione al Ministro della giustizia"

  1. Ferruccio Capelli scrive:

    Cara Maria

    la questione dirimente, preliminare a tutto il resto, a me sembra quella che tu sintetizzi nella domanda tre, ovvero come rimuovere la "cappa di ignoranza" che soffoca le potenzilaità di uno strumento potenzialmente "veramente innovativo". Senza questo chiarimento a monte tutto il resto si perde o si confonde. Il cittadino percepisce gli interventi legislativi sulla mediazione, che si stanno facendo frequenti, come un tentativo di alleggerire la macchina giudiziaria affidando alla mediazione le "bagatelle" che intralciano indebitamente. Serve e urge un ragionamento "pubblico" di fondo, come quello che tu lucidamente proponi.

    Ferruccio Capelli

    • Maria Martello scrive:

      Carissimo, comunque la volontà di deflazionare i Tribunali se non è accompagnata da una alternativa seria, e la mediazione lo è solo se di qualità, resta un mero intento.

      Urge un ragionamento pubblico e conto anche sulla possibilità che nella tua qualità di Direttore della casa della cultura, tu possa contribuire a promuoverlo.

      Maria

       

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