Il senso profondo della mediazione in un recente libro


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E’ appena stato pubblicato un libro che tratta della mediazione in termini inediti e profondi: non già un manuale di tecniche e procedure, bensì un'appassionata riflessione sui significati e le conseguenze del conflitto nella vita delle persone.
Si tratta de La formazione del mediatore. Comprendere le ragioni dei conflitti per trovare le soluzioni, di Maria Martello, nella collana Un altro modo, cultura della mediazione, (UTET Giuridica).


L’Autrice, che elabora un originale modello, da lei definito filosofico-umanistico, muove dal presupposto che le opportunità offerte dalle cosiddette A.D.R. (alternative dispute resolution) non si esauriscono sui piani giuridico ed economico: se così fosse sarebbero destinate a rimanere in ombra realtà che rifuggono dalle spiegazioni razionali
Le vere opportunità sono quelle che afferiscono gli interventi sulla dimensione profonda ed emotiva dei comportamenti delle parti in lite, caratterizzando la dimensione etica nella quale opera il mediatore e conferendo al suo operato tratti profondi ed innovativi.


La composizione, totale e definitiva, dei contrasti è resa possibile grazie a questo approccio, volto a trasformare circostanze negative, purtroppo in agguato – prima o poi – nella vita di tutti, in eventi dei quali proficuamente cogliere ogni recondito risvolto: si tratta di indagare a fondo il proprio modo di comportarsi, nonché la natura e le ragioni dell’altro –la ‘controparte’–.
La mediazione consente di imparare a dialogare accettando di confrontarsi direttamente e coraggiosamente con le pulsioni più elementari, quali la voglia di supremazia sull’altro, anche con il ricorso a, pur ‘legittime’, difese che incoronano i vincitori, ma lasciano dentro – anche per sempre – la consapevolezza di aver sviluppato modalità proprie dell’homo omini lupus.


Questa visione etica della mediazione può apparire utopica, nell’accezione di nù-topos, vale a dire che non ha ancora ‘luogo’, uno sprone, quindi, a tendere al meglio, se si è convinti che il superamento delle singole liti rechi con sé un’opera di pacificazione sociale e, contestualmente, una riduzione del carico di lavoro dei tribunali.


E’ necessario riflettere su ciò che si agita nella persona che entra in lite con un’altra, indipendentemente dall’oggetto del contendere e dall’ambito nel quale il conflitto deflagra.
Solo così potrà investirsi proficuamente, affinché questa innovazione e la sua obbligatorietà prima di adire il giudice, siano percepite non come un’imposizione, bensì come una opportunità di valore.


Perché ciò avvenga il primo passo deve essere l’adeguata formazione del mediatore, per un servizio di qualità, ora che, grazie anche alla L. 9 agosto 2013, n. 98 si presentano condizioni per operare in modo incisivo; il secondo, invece, la consapevolezza che esistono modalità in grado di andare oltre le forme che la società ha, sino ad ora, seguito per regolare i conflitti, ed aver fiducia nel dare risposte che vadano oltre il sistema giudiziario.
Ciò presuppone la revisione del concetto stesso di conflitto che, di per sé, non è poi così malefico, ‘terribile’, come lo abbiamo sempre percepito e vissuto: se diventiamo più ‘evoluti’ nel modo di viverlo, esso può divenire occasione di crescita con l’indispensabile consapevolezza che dai conflitti si può uscire, avendo compreso come, con la stessa forza dedicata a generarli, si possono trovare le condizioni per superarli.

È in gioco la stessa possibilità dell’individuo di assumere interamente la responsabilità del proprio operato, correggendolo ed indirizzandolo proficuamente.
 

L’Autrice sottolinea come all’essere umano sia connaturata la potenzialità di saper guardare sempre innanzi a sé, collocandosi su posizioni ed interessi ‘altri’, su pensieri ‘nuovi’, tali da smorzare le dinamiche distruttive in atto e disvelarne l’incompatibilità rispetto alle opportunità future.
 

Cos'è – si chiede l’Autrice – la mediazione se non un modo per imparare progressivamente a vivere di confronto e non di scontro?
Certamente non deve intendersi quale modalità per contenere il conflitto, bensì per trasformarlo: non per dare, salomonicamente, un po’ di torto e un po’ di ragione a ciascuno dei contendenti, ma per svelare quelle ragioni – non sempre note agli stessi protagonisti del conflitto – che scatenano le liti, per portarle alla luce, scandagliarle e ‘disinnescarle’.


Mediare un conflitto non significa, quindi, solo cercare un accordo tra le parti, ma consente alle stesse parti in lite di scoprire le ragioni profonde dei propri atti e, partendo da queste, liberarsi dalle dinamiche distruttive che spingono ad aggredire l’altro nuocendo a sé stessi.


Comprendere le motivazioni alla base del conflitto diminuisce il senso di colpa, inaridisce il terreno sul quale si sviluppa il risentimento, fa svanire il bisogno di consumare forme di vendetta facendo patire ad altri il proprio disagio.
Con la mediazione le parti trovano un accordo che soddisfa entrambe e rimuovono i focolai di nuove azioni di lotta. Ed, ancor più, esse sono libere di progettare modalità diverse per stare in relazione, liberandosi dai vincoli dei comportamenti precedenti ed allontanarsi progressivamente dai ‘vecchi’ schemi di comportamento, voltando le spalle al passato.


Mediare significa comprendere le ragioni delle incomprensioni, scoprire vie e, soprattutto, abiti mentali idonei a superarle.
Una strada per risolvere non solo i macroconflitti, ma altresì le piccole incomprensioni quotidiane, in ambito privato e lavorativo, con uno stile più etico e maturo cui improntare lo scambio relazionale, personale, sociale, manageriale.
Per l’Autrice rimane in secondo piano valutare se la mediazione debba precedere le vie giudiziarie o con esse possa intrecciarsi, se debba rappresentare un’opportunità per la quale optare liberamente o se, viceversa, essa possa, almeno in taluni casi, rappresentare un obbligo; non considera prioritario affrontare, in questo momento, neppure i temi delle modalità organizzative e delle tariffe: tutte questioni, serie ma non prioritarie.


Ritiene l’Autrice che il dibattito non abbia ragion d’essere se prima non si precisi il senso e si radichi il consenso sulla mediazione, nella consapevolezza che di vera innovazione si tratta, e le si dedichi il tempo necessario a comprenderla, scongiurando i pericoli alimentati dalla diffusa convinzione che tutti credono di conoscerla, sovente assimilandola a forme conciliative in passato sperimentate, ma spesso con deludenti esiti, come in ambito giuslavoristico.
All’Autrice preme approfondire i tratti necessari alla formazione della mentalità del mediatore, definire il pensiero filosofico sul quale deve poggiare la possibilità di far evolvere gli altri dal conflitto che li contrappone, chiarire le forme mentali che generano lo scontro e lo rendono non più gestibile.


Purtroppo un pensiero troppo debole ha caratterizzato il recente dibattito sulla mediazione, alla quale è stata rivolta attenzione con finalità prettamente utilitaristiche: la deflazione del contenzioso giudiziario.
L’opposizione è stata, invece, in gran parte di segno corporativo: in questa prospettiva, la mediazione è stata presentata quale un inutile, ulteriore, balzello per il cittadino, talvolta in balia di organismi di mediazione improvvisati ed improvvidamente accreditati dal ministero della giustizia.
Dovrà trascorrere molto tempo prima che la diffusione della mediazione ponga a rischio il ruolo dell’avvocato quale esclusivo tramite fra i litiganti e la giustizia: in ogni caso, la mediazione richiede legali dalla mentalità capace di operare non soltanto con gli strumenti giudiziari.
Ciò tocca, con evidenza, il problema delle competenze nel campo della mediazione, anche per indirizzare proficuamente la parte assistita, aiutandola a comprendere le logiche non conflittuali che ne sono alla base: non si tratta, tuttavia, di doti innate, ma di abilità che derivano dall’approfondimento teorico – e dalla specifica esperienza pratica – resi possibile da un adeguato percorso personale.
Su questo l’Autrice è assai netta: come non si improvvisa un professionista, neppure si improvvisa un mediatore in grado di muoversi a proprio agio nelle peculiari dinamiche di un conflitto.
I professionisti devono essere convinti dell’opportunità di consigliare il cliente a ricorrere alla mediazione, anche in assenza di qualsivoglia obbligo: purtroppo, però, la disciplina adottata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 coglie impreparata la prevalente parte dei professionisti, agli occhi dei quali è vista o con la diffidenza con la quale si guarda un nuovo orpello procedurale o, peggio, con la – neppure tanto – nascosta speranza che si tratti soltanto di un ballons d’essai, destinato a far discutere lo spazio di un mattino, per essere, poi, abbandonato all’oblio.


Inoltre, lungi dalla logica che la mediazione debba nascere dalle carenze dell’amministrazione della giustizia, l’Autrice è ben certa che la prima non possa radicarsi senza che l’altra sia in grado di assolvere al ruolo che le compete in un Paese civile.
Il ricorso alla mediazione deve, quindi, consolidarsi non in alternativa, bensì in complementarietà rispetto all’amministrazione giudiziaria, nella prospettiva di maggiore efficienza del ‘sistema giustizia’ nel suo complesso.
 

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Autore:


Professore di Istituzioni di diritto privato nella Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca, ove è incaricato anche del corso di Diritto dei consumatori, è avvocato e co-direttore di Consumatori, diritti e mercato. E' responsabile scientifico di numerosi enti di formazione dei mediatori civili e commerciali.

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