La class action in Italia: un po’ di coraggio per liberarne le potenzialità


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Ad oltre quattro anni dall’entrata in vigore in Italia della class action, si può tracciare un primo bilancio sulla sua applicazione e sui risultati ottenuti. Un bilancio che mostra purtroppo più ombre che luci.


Sin dall’inizio erano state avanzate perplessità e previsioni pessimistiche su alcuni aspetti del “modello” adottato in Italia con l’art. 140 bis del Codice del Consumo e sulla sua effettiva capacità di raggiungere gli obiettivi perseguiti: un adeguato e più agevole risarcimento dei danni “di massa” subiti dai consumatori, con i conseguenti effetti di deterrenza nei confronti di comportamenti illeciti da parte delle imprese e quindi di enforcement dei diritti dei consumatori e di regolazione del mercato.
 

A ciò si sono aggiunte ora le decisioni della magistratura sinora intervenute che, spesso basate su criteri interpretativi restrittivi e/o formalistici, hanno amplificato le difficoltà e gli ostacoli già presenti sin dall’inizio nella legge.


Ciò è avvenuto, in primo luogo, nell’ambito del preliminare esame di “ammissibilità” dell’azione di classe da parte del giudice, che costituisce un “filtro” in sé accettabile e tra l’altro previsto anche dal modello USA sulla base di requisiti in gran parte analoghi: non manifesta infondatezza della domanda, omogeneità dei diritti degli appartenenti alla classe, capacità del proponente di tutelare gli interessi della classe, assenza di conflitti di interesse. Se non fosse che i giudici l’hanno reso più selettivo del necessario e più stretto di quanto previsto dalla legge.
 

E’ stato questo, ad esempio, il caso della decisione del Tribunale di Torino, che ha dichiarato l’inammissibilità dell’azione di classe introdotta da Altroconsumo nei confronti di Intesa S.Paolo (avente ad oggetto l’illegittimità delle commissioni di massimo scoperto applicate sui conti correnti) non ritenendo valido il mandato conferito dai proponenti all’associazione. Una carenza formale in realtà inesistente, come poi confermato dalla Corte d’Appello che ha riformato la decisione del primo giudice.
 

Analogamente, il Tribunale di Milano ha inizialmente dichiarato inammissibile l’azione introdotta da Altroconsumo nei confronti di Trenord (avente ad oggetto i gravi disservizi subiti dai pendolari nel dicembre 2012 a causa del mancato funzionamento del nuovo sistema software introdotto dall’azienda) ritenendo “non omogenei” i diritti fatti valere per il solo fatto che i disagi (ad esempio, l’ampiezza dei ritardi) si erano manifestati in misura diversa a carico delle vittime dei disservizi.
 

Benché anche in tal caso la decisione inizialmente sfavorevole del Tribunale sia stata riformata dalla Corte d’Appello, è evidente come la necessità di un doppio grado di giudizio solo per superare l’ostacolo preliminare della ammissibilità, comporta non solo un considerevole dispendio di energie e di risorse da parte del proponente, ma soprattutto un allungamento dei tempi tra i fatti oggetto del giudizio e la successiva fase di raccolta delle adesioni, che può avvenire solo successivamente alla formale ammissione dell’azione di classe da parte del giudice.
 

Il che rende ulteriormente complessa la raccolta delle adesioni, che come noto costituisce uno degli aspetti problematici insiti nel modello italiano dell’azione di classe, in base al quale l’azione sarà efficace solo nei confronti di coloro che hanno comunicato di volervi espressamente aderire (c.d. opt in), differenziandolo da quello nord americano, che prevede invece, di regola, l’automatica efficacia dell’azione di classe nei confronti di tutti gli interessati, salvo di coloro che dichiarino espressamente di non volervi aderire (c.d. opt out).


Che il meccanismo dell’ opt-in avrebbe depotenziato enormemente l’efficacia dell’azione di classe, quale strumento di enforcement e di prevenzione degli illeciti, era chiaro sin dall’inizio.


In primo luogo, l’adesione esplicita impone la necessità che gli interessati siano, preliminarmente, informati dell’azione. Informazione i cui oneri attualmente gravano in via esclusiva sul soggetto che ha proposto e avviato l’azione, che ben difficilmente, anche qualora abbia a disposizione adeguate risorse, sarà in grado di raggiungere e comunicare effettivamente con tutti o con gran parte degli interessati. Comunicazione che in molti casi sarebbe invece più agevole  all’impresa, con risultati più proficui e a costi più contenuti. E ciò nell’interesse non tanto del proponente ma della classe, che è quello che i meccanismi dell’azione dovrebbero propriamente ed efficacemente tutelare. Da notare che in tutti i casi nei quali sinora i Tribunali hanno stabilito le forme di pubblicità, per legge a carico del solo proponente, si sono limitati ai tradizionali annunci legali sulla carta stampata, tanto costosi quanto inutili ad informare gli interessati.


Inoltre, soprattutto laddove si tratti di importi economici di modesto valore (vale a dire proprio nei casi in cui le azioni di classe  dovrebbero svolgere la funzione di facilitare l’accesso dei consumatori alla giustizia, superando le difficoltà, i costi e i rischi di un’azione individuale del tutto diseconomica), è evidente come anche formalità apparentemente semplici (la compilazione e deposito di un atto, la ricerca e allegazione di documentazione) determinano un effetto di forte selezione del numero degli aderenti, tale da compromettere la funzione stessa della class action.


Prova di ciò si è avuta in modo particolarmente chiaro nel caso Altroconsumo/Intesa San Paolo, dove, a fronte di un numero di correntisti potenzialmente interessati di svariate decine di migliaia, e nonostante gli sforzi informativi svolti dall’associazione (ben oltre quanto stabilito dal Tribunale), il numero delle adesioni raccolte è ammontata a poco più di un centinaio (gli aderenti dovevano compilare una domanda e allegare una copia degli estratti conto – peraltro di alcuni anni prima – sui quali erano state applicate le commissioni illecite).


Ma anche tale sparuto gruppo di consumatori aderenti è stato poi decimato dalla decisione finale del Tribunale di Torino che, pur ritenendo illegittimo il comportamento dell’Istituto bancario e pertanto condannandolo alla restituzione degli importi illegittimamente addebitati, ha ritenuto valide solo le pochissime adesioni munite di firma autenticata (da parte di un Notaio, Cancelliere o Segretario Comunale), un requisito non previsto né dalla legge, né dal Codice del Consumo, oltretutto più gravoso di quanto richiesto agli stessi proponenti dell’azione e potenzialmente più costoso degli importi in gioco nella causa. Un requisito che, ove confermato, costituirebbe un ostacolo insormontabile alla raccolta delle adesioni.


Alle interpretazioni restrittive e formalistiche sul piano procedurale, si sono aggiunte quelle di segno analogo nel merito delle questioni (vale a dire degli illeciti commessi) sottoposte all’attenzione dei giudici.


E’ stata dichiarata inammissibile dal Tribunale di Firenze, ad esempio, l’azione di classe introdotta da Altroconsumo nei confronti di una azienda erogatrice del servizio di raccolta dei rifiuti, con la quale veniva richiesta la restituzione dell’IVA applicata sulla relativa tassa (TIA), già riconosciuta illegittima da numerose sentenze della magistratura ma che, in sede di azione di classe, ha visto i giudici orientati in senso opposto (forse preoccupati dall’impatto che una tale azione avrebbe prodotto sui bilanci delle aziende municipalizzate, a differenza di ciò che era avvenuto in caso di azioni individuali precedentemente intraprese da singoli consumatori che avevano portato ad esiti favorevoli).


D’altra parte, le tre azioni di classe sinora giunte alla sentenza di primo grado, hanno visto l’accoglimento nel merito delle domande dei preponenti: oltre che nel caso Altroconsumo / Intesa San Paolo già citato, nel caso Unione Nazionale Consumatori/Tour Operator il Tribunale di Napoli ha accertato l’inadempimento al contratto di viaggio e condannato l’operatore al risarcimento del danno da vacanza rovinata (ma a favore di una parte degli aderenti, essendo molti di loro ritenuti in situazione “non omogenea”), così come nel caso Codacons/Azienda Farmaceutica la Corte d’Appello di Milano (riformando la decisione anche in tal caso contraria del Tribunale) ha confermato l’esistenza di una pratica commerciale illecita da parte dell’azienda per aver diffuso informazioni scorrette sulle proprietà di un farmaco (ma aveva aderito all’azione un solo consumatore).


In sostanza, in tutti questi casi, il meccanismo dell’opt-in per l’adesione da parte degli interessati, le difficoltà ed ostacoli frapposti dai Tribunali alla validità dell’adesione, ove avvenuta, ovvero alla mancata omogeneità dei diritti, ha comportato che le decisioni, pure favorevoli, sono stata rese a favore di un numero irrisorio di consumatori rispetto a quelli che erano stati effettivamente danneggiati dall’illecito ed erano potenzialmente legittimati ad aderire all’azione. Con ciò privando pressoché interamente l’azione delle funzioni che le sono proprie, in primis quella di strumento di accesso dei consumatori alla giustizia.


Al contempo, però, tali casi dimostrano che l’azione di classe potrebbe svolgere, ove impostata secondo meccanismi e criteri più ragionevoli ed efficienti, una utile funzione di controllo del mercato e di “sanzione” nei confronti dell’azienda che ha commesso illeciti ai danni dei consumatori, sanzione peraltro consistente nel solo risarcimento del danno causato e/o nel rimborso di quanto illegittimamente incassato, vale a dire commisurata alle sole conseguenze dirette ed immediate del comportamento dell’impresa ai danni del consumatore e che nulla ha a che vedere con i ben più rilevanti (e talvolta sproporzionati) punitive damages previsti dall’ordinamento nord americano.


Ulteriore conferma delle potenzialità della azione di classe, della esistenza di una “domanda” di tutela da parte dei consumatori e delle aspettative che essi ripongono in tale strumento, si ricava dal dato relativo al numero di consumatori (oltre 100 mila) che si sono registrati presso Altroconsumo, manifestando attraverso questa forma di “pre-adesione” il loro interesse e disponibilità a partecipare alle cinque azioni di classe avviate dall’associazione in importanti settori del consumo (servizi bancari, trasporto pubblico, servizi locali, pratiche anticoncorrenziali).


La sgradevole sensazione che si ricava dall’esperienza sinora maturata è però che la funzione di “deterrenza” dell’azione di classe si stia producendo, anziché nei confronti delle imprese che violano i diritti dei consumatori, nei confronti dei soggetti che le devono introdurre e gestire.


In effetti, le decisioni formalistiche e restrittive dei Tribunali sembrano ispirate, oltre che dalla innata “prudenza” con la quale vengono spesso accolte le novità legislative che mettono in discussione istituti e principi consolidati (non vi è dubbio che le azioni di classe, per il loro contenuto fortemente innovativo, richiederebbero anche un po’ di “coraggio” da parte dell’interprete), dalla preoccupazione che di esse possa essere fatto un uso “abusivo”, del quale peraltro non vi è alcun riscontro né evidenza nei fatti (dopo oltre quattro anni dall’entrata in vigore, le azioni di classe avviate in Italia sono poco più di una decina). In ciò forse tratti in inganno dalla frequenza con la quale le class action vengono annunciate (anche in casi del tutto impropri e privi di basi giuridiche) a livello esclusivamente mass-mediatico, ma che tali restano.


Nel frattempo, il lungo e acceso dibattito a livello europeo su un modello armonizzato di azione collettiva risarcitoria (group action) è finora sfociato solo in una Raccomandazione agli Stati membri, rendendo inevitabile e necessario che sia ancora una volta il legislatore nazionale a mettere quanto prima mano al modello introdotto nel 2009, in particolare rivedendo adeguatamente i criteri e meccanismi di adesione: dovrebbe essere consentito al giudice, come già previsto in alcuni ordinamenti scandinavi, di decidere se adottare il meccanismo dell’opt-in o dell’ opt-out in relazione alle circostanze del caso (quali la numerosità dei potenziali aderenti, l’ammontare delle somme in gioco, etc.) e tenendo conto degli effettivi interessi della classe; dovrebbe essere prevista, al fine di abbattere, per quanto possibile, i costi di pubblicità legale in capo al soggetto promotore dell’azione una volta passato il vaglio di ammissibilità, una maggiore libertà nelle modalità di informare i consumatori possibili aderenti attraverso Internet e riservando adeguati spazi messi gratuitamente a disposizione dal servizio radio-televisivo pubblico;  dovrebbero essere introdotti oneri di disclosure ed informavi della classe anche a carico dell’impresa coinvolta, che in molti casi (come avviene tra una banca e i suoi correntisti) è agevolmente a conoscenza e in grado di comunicare, a costi contenuti, con i consumatori interessati all’azione. Anche in tal caso, nel precipuo interesse della classe (non del proponente).


La class action rappresenta uno strumento evoluto ed insostituibile per la tutela collettiva dei diritti e degli interessi dei consumatori.  Non a caso ormai più della metà dei Paesi UE ha introdotto azioni collettive risarcitorie, rispetto ai quali il modello italiano, nonostante le difficoltà e contraddizioni sopra descritte, costituisce un modello evoluto.


E’ il momento di mettere a frutto l’esperienza sin qui maturata per rimediare agli evidenti difetti del modello attuale, per renderne più agevole l’effettivo esercizio e liberarne le potenzialità. Che sono evidenti con riferimento alla funzione sia di riparazione a favore dei consumatori, che di deterrenza rispetto a comportamenti plurioffensivi delle imprese. Due obiettivi fondamentali in  un mercato efficiente, moderno e che si desideri operante nell’interesse generale.   
 

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Autore:


Nato a Milano nel 1954. Avvocato. Presidente della Fondazione Altroconsumo. Presidente del Bureau Européen des Unions de Consommateurs di Bruxelles dal 2008 al 2012. Membro dell’European Consumer Law Group dal 1981 al 2005. Membro del Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti c/o il Ministero delle Attività Produttive (Roma) dal 1998 al 2006. Ha collaborato e collabora in materia di consumer policy e diritto del consumo con Istituzioni, Università e riviste giuridiche ed economiche.

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