Sulla strada dell’Open Data


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“Open Data”, due parole che, all’estero – Stati Uniti di Barack Obama in testa – sono, ormai, sinonimo di “rivoluzione”.
Una rivoluzione che sta rapidamente trasformando radicalmente il rapporto tra cittadini ed amministrazione e, ad un tempo, creando insospettate ed insospettabili opportunità imprenditoriali.
Il principio è tanto semplice quanto dirompente: la pubblica amministrazione deve pubblicare tutte le informazioni di cui è in possesso – salvo poche, tassative eccezioni – e renderle riutilizzabili da parte di chiunque, per qualsiasi finalità, ivi inclusa quella commerciale.
Benefici straordinari in termini democratici ed economici.
Dati ed informazioni sin qui custoditi in inaccessibili e polverosi archivi, liberati in modo anziché essere al capolinea della loro esistenza e sostanzialmente inutili possano, da una parte, raccontare molto di come ha agito ed agisce l’amministrazione ma anche di come cresce – o non cresce – il Paese e, dall’altro, possano ri-acquisire – o addirittura non perdere – il loro valore economico perché inseriti nel “ciclo di produzione” di servizi e contenuti di carattere commerciale.
Tanto per capirci, se oggi una ricerca costata ad un’amministrazione centinaia di migliaia di euro sulla salubrità dell’aria in un determinato territorio, perde ogni valore democratico ed economico all’indomani della sua archiviazione all’interno dei sistemi dell’amministrazione che l’ha commissionata perché nessuno – salvo pochi eletti – può accedervi, domani, o meglio oggi, i dati e le informazioni contenuti in quella ricerca potrebbero – ed anzi dovrebbero – essere “liberati” in formato aperto con il duplice vantaggio di consentire ai cittadini ed ai media di verificare se, effettivamente, l’amministrazione pubblica tiene conto, nelle sue scelte, dei risultati della ricerca e/o, ad un tempo di permettere a qualche giovane startup di sviluppare e creare un applicazione che, ad esempio, consenta alle giovani coppie in cerca di prima abitazione di scegliere, in modo consapevole, se far crescere i loro figli in un’area più o meno salubre del nostro territorio.
E’ questo che sta accadendo all’estero.
E in Italia?
Anche nel nostro Paese, qualcosa, timidamente si muove o, almeno, dovrebbe e potrebbe muoversi perché, nonostante le italiche resistenze – per non dire “allergie” – dell’amministrazione a digerire il concetto di trasparenza, norme, regolamenti e direttive,  che segnano la strada – c’è da augurarsi senza ritorno – dell’Open Data, ormai, ci sono.
Sul punto però è bene essere estremamente chiari per evitare ogni fraintendimento che potrebbe ingenerare la pericolosa illusione di sentirsi arrivati e di aver raggiunto la meta.
L’attuale contesto normativo – a cominciare dal codice dell’amministrazione digitale come sin qui modificato – consente alle pubbliche amministrazioni di condividere il proprio patrimonio informativo in formato Open Data e, a tutto voler concedere, attribuisce a tale formato la condizione di “default”, stabilendo che ove non diversamente previsto le amministrazioni debbano pubblicare i propri dati in tale formato.
Manca, però, una norma che metta nero su bianco un vero e proprio obbligo delle amministrazioni a “condividere” il proprio patrimonio informativo con la collettività in formato Open Data.
Qualcosa che segni il passaggio dalla “facoltà” riconosciuta alle amministrazioni al dovere di queste ultime a pubblicare i propri dati in formato e con modalità aperta.
Un obbligo che per poter davvero determinare la Pubblica Amministrazione italiana a superare la propria atavica resistenza alla trasparenza ed alla condivisione e l’umana – ma non per questo scusabile – pigrizia ad abbandonare certe vecchie abitudini per imboccare una strada nuova dovrebbe, necessariamente, essere assistito non solo e non tanto da più o meno severe responsabilità e sanzioni ma da un autentico corrispondente diritto di chiunque – e non solo dei cittadini italiani – di chiedere ed ottenere dalla pubblica amministrazione la messa a disposizione di tutte le informazioni in proprio possesso – con le solite limitate e tassative eccezioni – in formato aperto.
Qualche passo – non proprio timido ma ancora indeciso – in questa direzione sembrerebbe essere stato compiuto dal Governo che, nelle scorse settimane, a pochi giorni dal commiato, ha approvato uno schema di decreto di riordino della disciplina in materia di trasparenza – il testo non è, tuttavia, ancora stato pubblicato in Gazzetta – che all’art. 3 prevede “Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell’articolo 7 del presente decreto.”.
Il citato articolo 7, a sua volta, stabilisce che “I documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente…sono pubblicati in formato aperto ai sensi dell’articolo 68 del Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e sono liberamente riutilizzabili ai sensi del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, senza ulteriori restrizioni diverse dall'obbligo di citare la fonte e di rispettarne l'integrità.”.
Il combinato disposto delle due previsioni sembrerebbe consentire di ritenere che la pubblicazione in formato aperto – una volta che il Decreto sarà entrato in vigore – non sarà più soltanto un’opzione, ancorché di default, per tutte le pubbliche amministrazioni ma l’unica strada percorribile.
Bene così, dunque, anche se, sfortunatamente, le due norme appena richiamate si applicano “solo” a tutti i dati e le informazioni che la pubblica amministrazione, ad oggi, è obbligata a pubblicare online e, dunque, ad un novero di dati che è, ancora, davvero poca cosa rispetto allo straordinario patrimonio informativo in possesso della nostra amministrazione.
Siamo sulla strada dell’Open Data ma non siamo ancora arrivati e, a tratti, la meta sembra davvero lontana.
Guai, però, a perdere la fiducia.


 

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Autore:


Avvocato, insegna diritto delle nuove tecnologie presso l'Università di Bologna e l'Università Lateranense, è coordinatore della Open Media Coalition e Presidente dell'Istituto per le politiche dell'innovazione. Autore di numerosi articoli e libri in materia di diritto dell'informatica è blogger su Il Fatto Quotidiano, L'Espresso e Wired.

0 Risposte a "Sulla strada dell’Open Data"

  1. Guido Scorza scrive:

    [...] “Open Data”, due parole che, all’estero – Stati Uniti di Barack Obama in testa – sono, ormai, sinonimo di “rivoluzione”.Una rivoluzione che sta rapidamente trasformando radicalmente il rapporto tra cittadini ed amministrazione e, ad un tempo, creando insospettate ed insospettabili opportunità imprenditoriali.Il principio è tanto semplice quanto dirompente: la pubblica amministrazione deve pubblicare tutte le informazioni di cui è in possesso – salvo poche, tassative eccezioni – e renderle riutilizzabili da parte di chiunque, per qualsiasi finalità, ivi inclusa quella commerciale.Benefici straordinari in termini democratici ed economici.Dati ed informazioni sin qui custoditi in inaccessibili e polverosi archivi, liberati in modo anziché essere al capolinea della loro esistenza e sostanzialmente inutili possano, da una parte, raccontare molto di come ha agito ed agisce l’amministrazione ma anche di come cresce – o non cresce – il Paese e, dall’altro, possano ri-acquisire – o addirittura non perdere – il loro valore economico perché inseriti nel “ciclo di produzione” di servizi e contenuti di carattere commerciale.  [...]

    http://www.scoop.it/t/dataumpa/p/3999092772/sulla-strada-dell-open-data

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