Riforma della Rai: un equilibrio tutto italiano


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Negli ultimi mesi la modifica della riscossione del canone Rai è stata al centro dell’attenzione mentre rimanevano più sullo sfondo questioni forse più rilevanti come il rinnovo  della concessione e le mosse del nuovo management.

 

Il Governo ha deciso di modificare la riscossione del canone Rai inserendolo nella bolletta elettrica e contestualmente abbassandone l’importo a 100 euro. La misura riduce leggermente il canone per chi già lo paga e aumenta di un po’ le entrata della Rai.
La nuova procedura solleva diversi problemi, innanzitutto per le società elettriche che devono gestire la fatturazione e anche per i molti utenti che si trovano in situazioni al margine e che devono documentare di non dover pagare. Siccome il punto di partenza sono le utenze elettriche, possono verificarsi molte situazioni ambigue, come intestazioni non cambiate oppure più utenze elettriche nella stessa abitazione che causeranno non pochi fastidi ai consumatori.
Occorre però anche considerare il punto di partenza: fino al 2015 pagavano il canone circa il 75% delle famiglie mentre hanno il televisore oltre il 99% con un tasso di evasione del 25%, contro un tasso fisiologico negli altri paesi europei di circa il 6-7%. Da molti anni in tutti i paesi europei il canone è una tassa sul possesso dell’apparecchio televisivo e non è formalmente legato al fatto che si guardi o meno la televisione pubblica. 

 

Quindi il problema di allargare la platea di quelli che pagano una tassa, che può essere discutibile, ma rimane in vigore, si pone in Italia con una certa forza.  Il metodo del collegamento alla bolletta elettrica ha molti punti discutibili, ma teoricamente è in grado di raggiungere l’obiettivo. Dico teoricamente perché in realtà le società elettriche non possono (e non vogliono) sospendere la fornitura di energia elettrica a chi non paga il canone, ma semplicemente segnalano all’Agenzia delle Entrate. E’ probabile dunque che si verificherà un vasto contenzioso che per i consumatori sarà tanto più disagevole considerando che la nostra Agenzia delle Entrate non è famosa per la facilità di accesso e per la capacità di gestire in modo flessibile situazioni ambigue.

 

Nello stesso periodo  è iniziata la discussione sul rinnovo della convezione tra stato e Rai, che potrebbe ridefinire il ruolo e il perimetro dell’azienda, ma che finora è proceduta abbastanza sottotono senza che ci fosse un’ipotesi chiara da parte del Governo. Eppure l’industria televisiva sta subendo rilevanti trasformazioni sia tecnologiche che di mercato, mentre gli equilibri industriali italiani rischiano di essere superati dalle innovazioni tecnologiche. E il canone non è che la punta dell’iceberg delle particolarità e dell’ambiguità della situazione italiana.

 

In molti paesi europei lo sviluppo della televisione commerciale ha coinciso con uno sforzo di identificazione dei servizi pubblici televisivi che hanno ridotto gli spazi pubblicitari puntando su tipologie di programmazione che le emittenti commerciali non facevano e teso a differenziarsi da queste ultime creando in qualche modo due mercati separati. I prezzi di questa scelta sono stati un calo degli ascolti e un aumento del canone per compensare l’assenza di entrate pubblicitarie.

 

Per molti anni avere una televisione pubblica finanziata in parte dalla pubblicità ha consentito ai cittadini di pagare un canone che è circa metà di quello tipico in paesi dove il servizio pubblico è più separato dal mercato, e ha incentivato da parte di Rai un certo orientamento ai telespettatori, più di quanto non accada nelle televisioni pubbliche di altri paesi. Si è trattato quindi di un modello con molti lati positivi accanto ai punti critici più segnalati, quali una progressiva commercializzazione dei programmi. Negli ultimi anni però tendono prevalere i difetti di questo modello che spinge la televisione pubblica ad omologarsi con quella commerciale e lo stridore di certe scelte di programmazione emerge con maggior forza. Ma decidere il modello di servizio pubblico televisivo  di un paese richiede un’ampia discussione pubblica che dovrebbe essere centrata sugli interessi dei cittadini non solo su quelli dei dipendenti e dei concorrenti. 
Occorrerebbe illustrare adeguatamente i diversi tradeoff, le possibili alternative considerando che anche in questo campo così come in generale in economia non ci sono molti pasti gratis. Nella maggior parte dei paesi europei è ormai prevalso un modello che privilegia una certa separazione tra i mercati della televisione  pubblica e quelli della televisione commerciale. Recentemente anche in Francia e Spagna è stata fortemente ridotta la pubblicità sulla televisione pubblica. Questa maggior lontananza dal mercato pubblicitario consente scelte  editoriali meno puntate a massimizzare l’audience e programmi più colti e più critici. Ma anche questa strada ha i suoi trade off: occorre usare più risorse pubbliche per finanziare il servizio televisivo imponendo un canone più elevato e alla lunga si pone il problema di qual è la logica con cui si scelgono i programmi e di come renderla accountable nei confronti dell’insieme dei cittadini.
Anche in Italia si potrebbe pensare ad una maggiore distanza dal mercato pubblicitario, ma visto il modello prevalente adottato da noi, questo percorso richiederebbe trasformazioni più profonde con ridefinizioni organizzative e di perimetro aziendale. Occorrerebbe inoltre costruire un architettura in cui sia garantita indipendenza culturale delle scelte di programmazione, ma anche delle policy in cui si possono disegnare degli obiettivi generali cui la televisione pubblica dovrebbe attenersi. Infatti l’indipendenza non può corrispondere all’assenza di obiettivi o all’arbitrio dei programmisti.

 

Naturalmente per rendere la Rai meno commerciale occorrerebbe limitare fortemente o eliminare la pubblicità e di conseguenza, per mantenere più o meno lo stesso perimetro, occorrerebbe aumentare e non ridurre l’importo del canone.
Inoltre vista la natura duopolistica del mercato televisivo italiano un allontanamento della Rai dal mercato avrebbe l’effetto di rendere Mediaset un monopolista di fatto del mercato pubblicitario e dell’ascolto commerciale, eventualità con diverse controindicazioni sia per il funzionamento del mercato pubblicitario che alla lunga anche per il pluralismo.

 

La soluzione opposta è quella di ridurre fortemente il perimetro del servizio pubblico a poche cose essenziali finanziate con limitate risorse pubbliche e magari mettere all’asta queste attività tra tutti gli operatori. In questa prospettiva la Rai diventerebbe un operatore televisivo come gli altri e non vi sarebbero controindicazioni alla sua privatizzazione. Ma in questo caso nessun acquirente privato si accollerebbe la struttura delle venti sedi regionali con circa 3000 persone e il numero elevato dei giornalisti. Occorrerebbe dunque una ristrutturazione socialmente dolorosa prima o dopo la messa sul mercato dell’azienda.

 

Una prospettiva intermedia è quella di lasciare 1-2 canali finanziati dal canone con compiti di servizio pubblico che mantengano la struttura regionale come elemento di federalismo e di rappresentatività geografica e il grosso delle risorse giornalistiche come elemento di pluralismo informativo.  Si dovrebbe creare una società con uno o due canali interamente commerciali  (con attorno qualche canale tematico) che dovrebbe essere rapidamente privatizzata. In questo modo si manterrebbe una concorrenza accettabile sul mercato pubblicitario e si favorirebbe una struttura di mercato con tre grossi player sulla televisione generalista favorendo la varietà informativa e il pluralismo.

 

Sono tutte scelte complesse che non possono essere assunte direttamente dalla Rai ma che devono essere promosse dalla politica e che richiedono un dibattito pubblico ampio e approfondito.

 

Qualsiasi scelta si faccia sulla Rai, occorre tener conto degli impatti che ha sul funzionamento del mercato  e sui concorrenti  considerando anche le trasformazioni tecnologiche da cui la televisione è investita. Mediaset ha appena  siglato un accordo con Vivendi che prevede la cessione di Premium e uno scambio azionario che sembrano preludere ad un ingresso più consistente del gruppo francese nell’impresa televisiva italiana. Per tutti gli operatori televisivi si pone in prospettiva il problema di come gestire l’offerta digitale di contenuti.

 

Intervenire oggi sul mercato televisivo è certamente difficile, ma l’equilibrio italiano comincia a mostra

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Autore:


Professore di Economia dei media presso l'Università degli Studi di Milano

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