Lo spreco programmato impoverisce il Pianeta (e tutti noi)


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Se c’è qualcosa che oggi appare drammaticamente vecchio è l’obsolescenza programmata, vale a dire il fatto che si cerchi di stimolare la caduta in disuso e il funzionamento per un periodo limitato di un prodotto, in modo da stimolare l’acquisto di uno nuovo o più aggiornato, spesso solo all’apparenza. Qualche giorno fa, in un convegno un ricercatore dell’ISPRA faceva notare che le basi del nostro pensiero, della nostra visone del mondo, sono tutte nate in periodi in cui la terra (tutta) era popolata al massimo da 400 milioni di persone, e quindi offriva possibilità e risorse globalmente illimitate. Oggi viviamo in un mondo di oltre 7 miliardi di persone, nel quale la lotta globale per l’accaparramento delle risorse è già in atto, anche se non la percepiamo. Pure il nostro modello economico è basato sempre sulla crescita, e quindi sul consumo, illimitati, anzi questo modello sta rapidamente guadagnando nuovi mercati e nuovi consumatori. Comportarsi come se potessimo andare avanti così per sempre può certo far comodo a qualcuno (a chi vende OGGI) ma rischia di far finire malamente noi tutti, consumatori vecchi e nuovi, in un imbuto al termine del quale potrebbe esserci la scarsità totale e quindi la povertà di massa e il consumo solo di elite. Sarebbe bene puntare da subito a nuovi modelli che garantiscano il benessere per tutti, selezionando i bisogni veri e la qualità.
 

L’obsolescenza programmata è antitetica alla sostenibilità ambientale: per produrre modelli più recenti sono sempre necessarie nuove risorse e il più delle volte, i vecchi materiali non vengono riutilizzati o riciclati. Questi materiali sprecati finiscono per inquinare gli ecosistemi e intasare le discariche. In alcuni casi, i materiali in disuso vengono inviati a paesi (poveri) e nel migliore dei casi qui si cerca di utilizzare l’utilizzabile, per poi comunque alimentare discariche lontane dai paesi di origine.


Tutti noi sappiamo che, solo quaranta anni fa, gli elettrodomestici o altri beni che le famiglie compravano a fatica e con grandi sforzi economici, erano fatti per durare. Dovendo affrontare una spesa considerata importante, il consumatore preferiva spendere qualcosa in più, ma assicurarsi modelli e marche considerate più durevoli. Si sceglieva in base alla qualità, non all’apparenza. Ma negli ultimi 20 anni la spinta ai consumi si è accompagnata con un cambiamento culturale che ha posto maggiore enfasi sul confezionamento, sull’involucro e sullo status-symbol legato al prodotto, piuttosto che sulla sua effettiva funzione, sul suo funzionamento e sulla sua durata.


La longevità non è quindi più redditizia, non rappresenta un fattore di competitività del prodotto: conta molto di più avere l’ultimo modello. Sia chiaro, non sto dicendo che tutti i consumatori sono (consapevolmente) legati a queste dinamiche o sono soggetti sempre passivi alle tecniche di marketing. Ma rendersi conto delle leve culturali e dei bisogni indotti è davvero molto complicato. Alcune volte impossibile, se si pensa ai programmi che non girano più sui computer solo di pochi anni fa.


Cerchiamo di ricapitolare con ordine quali sono i principali problemi ambientali legati all’obsolescenza programmata.


1) L'esaurimento delle risorse: più velocemente un prodotto si guasta, prima abbiamo bisogno di uno nuovo, e sono necessarie nuove risorse per produrlo, risorse non solo legate al materiale puro e semplice (come vedremo successivamente).


2) Produzione di rifiuti: se qualcosa è fatto per cessare di funzionare dopo un periodo limitato, si butta via prima e se ne consuma di più, il che contribuisce ad aumentare i rifiuti, già in continua crescita in tutto il mondo.


3) Maggiore consumo di elettricità e acqua; per produrre i beni, usiamo moltissima acqua e moltissima energia, e noi consumatori quasi mai ne abbiamo una lontana idea: una T-shirt (che pesa circa 250 gr) comporta l’uso di 2.500 litri  di acqua; inoltre, per produrre e trasportare la maglietta, magari dall’altro capo del mondo, usiamo tantissima energia.


4) L’usa e getta è dovuto a una gravissima stortura della nostra economia, che considera alcuni costi come non interni al prodotto, ma inesistenti o a carico della comunità (quindi a carico dei consumatori in quanto contribuenti);  per esempio, la risoluzione del problema dei rifiuti, i costi sanitari provocati dall’inquinamento delle fabbriche o delle centrali elettriche, i costi sociali legati al maggiore sforzo necessario per estrarre le risorse energetiche e minerali.


Il problema culturale è davvero molto grave, perché oggi come oggi pare che tutti abbiamo dimenticato che l’oggetto non nasce da nulla, ma è fatto di materia che proviene comunque dalle risorse naturali (e che finisce di nuovo in natura se non viene riusato o riciclato). La delocalizzazione delle produzioni aggrava la percezione sbagliata, visto che spesso esportiamo l’inquinamento che ogni produzione comporta in altri Paesi (non a caso, nelle economie emergenti la questione è gravissima, una vera e propria emergenza anche sociale).


Per l’ambiente la sfida vera si apre quando l’obsolescenza è reale, vale a dire quando un prodotto è davvero (molto) più efficiente della versione alternativa o precedente: in quel caso, per esempio in termini di consumi di energia o di inquinamento provocato. Anche se in realtà questa non è quasi mai obsolescenza programmata – in alcuni casi lo è indirettamente, perché le aziende tendono a sfruttare al limite la capacità produttiva del prodotto di qualità inferiore, ritardando l’immissione sul mercato del prodotto meno inquinante e più efficiente. La soluzione potrebbe derivare dalla ricerca in atto, tendente a mantenere gli involucri e pensare le migliorie sui prodotti esistenti, oltretutto con un esborso minore per il consumatore. Più in generale, in molti casi credo che possa essere posta una barriera all’obsolescenza programmata creando l’obbligo di rendere i nuovi prodotti compatibili con quelli esistenti, e di rendere disponibili per un lungo periodo i pezzi di ricambio.


D’altro canto, il consumatore può applicare delle regole nella scelta dei prodotti. Prima di tutto scegliere sempre quello più efficiente, che consuma meno. Inoltre, informarsi su quelli che durano di più e preferire la qualità e il buon materiale. Assicurarsi che siano completamente riciclabili (in Germania, per esempio, questo obbligo c’è da almeno 15 anni  per tutti gli elettrodomestici). Cercare prodotti che abbiamo garanzie lunghe e che possano essere riparati. Naturalmente, poi sta a noi: nel senso che per rendere un bene durevole dobbiamo anche mantenerlo bene.


In prospettiva, un po’ come sta avvenendo per le auto, la soluzione potrebbe essere un diverso modo di utilizzare alcuni prodotti o beni. In molte città del mondo, e oggi il fenomeno comincia anche in Italia, il car-sharing sta sostituendo il possesso dell’automobile. A questo punto è anche nell’interesse di chi affitta (spesso gli stessi produttori) avere il massimo risultato e il massimo della durata dai propri beni, che però per essere competitivi devono anche essere efficienti. E questo concetto si sta estendendo, ormai si parla di share economy. L’economia/le economie del futuro sta(nno) iniziando, se sapremo inventarla/e e favorirla/e, il vantaggio sarà per tutti.
 

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Autore:


Mariagrazia Midulla, 54 anni, è Responsabile Clima ed Energia del WWF Italia. Impegnata sui temi dell'ambiente, della salute e dell'equità sin da giovanissima, è stata referente romana di Medicina Democratica e ha co-fondato, tra l'altro, il Comitato Per l'Applicazione della legge 180 nel Lazio. Ha però sempre nutrito anche una forte passione e curiosità per le discipline umanistiche, per gli ambienti internazionali e per tutte le culture. Professionalmente, ha lavorato presso alcuni gruppi parlamentari come comunicatrice, collaborando anche ad alcune proposte di legge. Nel 1991 accolse l'offerta del WWF di diventare capo ufficio stampa. Dopo anni di impegno sulla comunicazione ambientale, divenne responsabile delle campagne internazionali del WWF Italia, occupandosi in particolare di cambiamento climatico/energia e di sostanze chimiche tossiche. Successivamente si è focalizzata sulla grande sfida del clima e della svolta energetica possibile. Segue le trattative internazionali sul clima dal 2001, ha partecipato ai Summit sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg (2002) e di Rio +20 (2012). Fa anche parte dei team internazionali del WWF su Clima ed Energia, sul G8 e G20 e sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Da un paio di anni è anche co-portavoce (pro-tempore) della Coalizione Contro la Povertà (GCAP).

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