Il negoziato TTIP e la risoluzione arbitrale delle controversie tra investitore straniero e stato ospite nella politica commerciale dell’UE


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Uno dei punti nevralgici del negoziato per un accordo globale sugli scambi e sugli investimenti tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America denominato il Partenariato Transatlantico per gli Scambi e gli Investimenti (TTIP) è la soluzione delle controversie in materia di investimenti. Il metodo prescelto, consistente nella previsione di un arbitrato internazionale le cui parti sono l’investitore e lo Stato ospite, ricalca un modello ben collaudato nel settore del diritto internazionale degli investimenti e codificato dalla Convenzione di Washington del 1965 sul regolamento delle controversie relative agli investimenti tra Stati e cittadini di altri Stati, istitutiva del Centro internazionale per la soluzione delle controversie in questa materia (ICSID). Il meccanismo arbitrale secondo le regole procedurali dell’ICSID, è poi frequentemente richiamato negli oltre 1400 accordi bilaterali (BIT) che i Paesi membri dell’Unione europea hanno contratto negli ultimi decenni in tema di investimenti. A ciò si aggiunga che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Unione è stata dotata di nuove competenze esclusive in materia di investimenti, circostanza che ha stimolato l’apertura di negoziati e la conclusione di alcuni accordi in questo settore in forma di accordi misti ai quali partecipa a pieno titolo l’Unione stessa. Proprio l’accordo con Singapore e quello con il Canada, entrambi sottoscritti nell’ottobre 2014 (ancorché non ancora ratificati), rappresentano i primi esempi di applicazione del modello arbitrale di risoluzione delle controversie Investor-State Dispute Settlement (ISDS) negoziato direttamente dall’Unione in luogo degli Stati membri, modello che si vuole ora applicare anche all’accordo di partenariato con gli Stati Uniti. 


Eppure, tanto sul piano delle prese di posizione politiche ufficiali, quanto a livello di opinioni pubbliche, si riscontra un diffuso scetticismo se non addirittura una aperta contrarietà al ricorso a tale modello negli accordi già sottoscritti e, in misura ancor più netta, con specifico riguardo al futuro accordo di Partenariato con gli Stati Uniti. 

Il disagio espresso, ad esempio, da fonti governative tedesche circa la ratifica dell’accordo bilaterale con il Canada firmato il 18 ottobre 2014, non può passare sotto silenzio, così come gli esiti della consultazione online lanciata dalla Commissione, proprio in relazione al metodo di soluzione arbitrale delle controversie, alla trasparenza del procedimento, alla preferenza per un esclusivo ricorso alle giurisdizioni nazionali, alle riserve espresse circa il rispetto di codici deontologici e di condotta ecc.. Né, infine, va sottovalutata la stessa quasi sorprendente dichiarazione dell’allora candidato presidente della Commissione Jean-Claude Junker nel suo opening statement del 15 luglio 2014 davanti al Parlamento europeo in seduta plenaria alla vigilia del suo insediamento con la quale – sostanzialmente contraddicendo la stessa impostazione ad iniziativa proprio della Commissione che stava per andare a presiedere – dichiarava che mai avrebbe accettato che la competenza delle giurisdizioni nazionali degli Stati membri dell’Unione subisse delle limitazioni ad opera di “regimi speciali” in relazione a controversie in materia di investimenti.

 

Vale la pena di chiedersi se la scelta di tale metodo, che ha il pregio di evitare il ricorso alla giurisdizione nazionale sul piano interno, e alla protezione diplomatica sul piano internazionale sia un’opzione a favore di un meccanismo inconsueto, o si ispiri invece a modelli già sperimentati a livello internazionale in materia di investimenti e in sintonia con un approccio europeo.


In termini generali è noto che si tratta dello stesso meccanismo al quale rinvia la gran parte dei BIT conclusi dagli Stati membri dell’Unione. Proprio tale circostanza sembra rappresentare per la Commissione una forte motivazione ad utilizzare questo metodo di soluzione delle controversie come uno degli elementi caratteristici del nuovo approccio europeo in materia di investimenti nell’ambito della politica commerciale comune.


È sufficiente citare, a partire dalla prassi precedente il Trattato di Lisbona, l’accordo multilaterale relativo all’Energy Charter Treaty (1991), gli accordi bilaterali con il Sud Africa (1999), quello di partenariato con il Messico (2000) e, più recentemente, l’accordo con la Corea del Sud (2011), oltre ai negoziati iniziati e da iniziarsi con gli Stati Uniti e con Paesi dell’Oriente e Pacifico (Cina e Giappone).Tra questi accordi, tuttavia, solo l’Energy Charter Treaty prevede, al suo art. 26, un meccanismo di risoluzione delle controversie in caso di violazione delle norme relative al trattamento dell’investitore straniero, mediante un procedimento arbitrale le cui parti siano lo Stato ospite e l’investitore medesimo. E, in effetti, benché gli arbitrati in materia di energia nell’ambito dell’Energy Charter Treaty  riguardino controversie nelle quali vengono convenuti gli Stati secondo il regolamento dell’ICSID o dell’UNCITRAL, la prassi ha mostrato solo alcuni casi in cui la Commissione dell’Unione europea interviene nel procedimento a titolo di amicus curiae.


È invece con i due più recenti accordi di libero scambio sottoscritti con Singapore (17 ottobre 2014) e con il Canada (c.d. CETA, 18 ottobre 2014) che il meccanismo di risoluzione arbitrale delle controversie in tema di investimenti trova una sua consacrazione più compiuta da valutare anche quale banco di prova per futuri accordi quali, in primo luogo, proprio il TTIP. La novità rispetto alle precedenti esperienze è duplice e riguarda sia la scelta del meccanismo arbitrale diretto tra investitore e Stato come del tutto alternativo al ricorso alle giurisdizioni statali, sia la previsione della possibilità di una partecipazione dell’Unione alla procedura medesima in qualità di parte convenuta accanto o in sostituzione di uno Stato membro.


Alla luce del dibattito in corso, alcune precisazioni sono opportune almeno circa i limiti dell’oggetto dell’arbitrato, la determinazione della figura del convenuto, la costituzione del tribunale arbitrale, il diritto applicabile, la trasparenza del procedimento, l’esecuzione delle decisioni. 


Quanto all’oggetto delle domande di arbitrato, in entrambi gli accordi il meccanismo ISDS non trova applicazione generale, ma solo in relazione alle controversie che riguardino l’obbligo di trattamento non discriminatorio dell’investimento (sezione 3 dell’accordo CETA), cioè in casi di violazione dell’obbligo di concedere per gli investimenti contemplati nell’accordo il trattamento nazionale o della nazione più favorita, ovvero la protezione dell’investimento (sezione 4 dell’accordo CETA), cioè nei casi di diniego di giustizia, di violazione fondamentale del principio dell’equo processo, di arbitrarietà manifesta, di palese discriminazione, di violazione di norme fondamentali relative al trattamento giusto ed equo o, ancora, l’espropriazione o nazionalizzazione discriminatoria e/o senza alcun indennizzo. Ai tribunali arbitrali istituiti in base a tali accordi è fatto espresso divieto di pronunciarsi su claims che non rientrino nelle categorie di cui sopra.


Alla luce delle nuove competenze attribuite all’Unione dal Trattato di Lisbona, la determinazione di chi sia la parte convenuta nella lite può rivelarsi compito di non immediata soluzione. Vi è infatti la possibilità che ad essere convenuto in giudizio dall’investitore non sia uno Stato membro, ma, secondo i casi, la stessa Unione europea. In proposito, sia l’accordo CETA, sia l’accordo con Singapore prevedono l’obbligo di una preventiva comunicazione dell’istante (l’investitore) all’Unione europea della sua intenzione di iniziare la procedura arbitrale e la successiva risposta dell’Unione con la comunicazione della parte da convenire nel giudizio secondo il caso in cui la parte convenuta debba essere l’Unione ovvero uno Stato membro. 


Quanto alla possibilità per soggetti terzi di partecipare all’arbitrato, l’accordo con Singapore prevede la facoltà per il Tribunale arbitrale di disporre l’accesso di terze parti con la possibilità di depositare memorie orali o scritte. Anche l’accordo CETA dispone l’obbligo per la parte convenuta di trasmettere a terzi – cioè allo Stato di cittadinanza dell’investitore – la richiesta di arbitrato ricevuta, nonché copia delle memorie depositate, delle richieste, dei verbali di udienza; il Tribunale arbitrale potrà, con l’accordo delle parti in lite, invitare terzi a partecipare alle udienze e a depositare memorie e documenti.


Quanto alla costituzione del tribunale arbitrale le norme in questione replicano gli usuali principi presenti nei regolamenti e nei regolamenti proposti dalle principali istituzioni internazionali (UNCITRAL, ICC, International Bar Association, ecc.). Oltre ai tradizionali requisiti di terzietà e di indipendenza che sono richiesti per la nomina ad arbitro, questi accordi prevedono che la nomina del terzo arbitro sia affidata al Segretario generale dell’ICSID nell’ambito di una lista di nominativi indipendenti, nel rispetto dei criteri stabiliti in materia di conflitto di interessi dalle International Bar Association Guidelines on Conficts of Interest in International Arbitration.


Il diritto applicabile alla controversia è quello di cui alla disciplina del singolo accordo considerato, da interpretarsi secondo i canoni del diritto internazionale di cui alla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. La trasparenza del procedimento viene garantita attraverso il richiamo alle UNCITRAL Transparency Rules che rappresentano uno standard elevato e un modello universalmente conosciuto elaborato dalla Commissione delle Nazioni Unite sul diritto del commercio internazionale.


L’oggetto della controversia da sottoporre al tribunale arbitrale dall’investitore deve dunque rientrare nel novero ristretto di queste ipotesi: Circa contenuto della decisione va precisato che due saranno le misure che il tribunale arbitrale potrà adottare nei confronti dello Stato che avrà violato l’accordo. Si tratta della condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento dei danni e della restituzione di beni e/o pagamento di danni pari al fair market value dei beni in epoca immediatamente precedente all’espropriazione subita. Non è invece prevista alcuna ipotesi di condanna dello Stato a provvedere alla modifica o all’eliminazione di misure normative che fossero state adottate.


Circa la fase conclusiva del procedimento arbitrale, entrambi gli accordi prevedono che le decisioni rese dai tribunali arbitrali così costituiti siano non solo vincolanti ma anche esecutive, alla stregua dell’art. 1 della Convenzione di New York del 1958.  


Sul tema del doppio grado di giudizio, va premesso che il metodo di risoluzione arbitrale delle controversie sia nell’arbitrato interno, sia nell’arbitrato commerciale internazionale, non prevede un secondo grado di giudizio. Si ritiene, infatti, comunemente che uno dei pregi dell’arbitrato consista proprio nella sua celerità determinata anche dalla circostanza di esaurirsi in un unico grado di giudizio. La previsione di un giudizio di revisione della decisione è possibile, ma solo ai fini di un giudizio che porti all’eventuale annullamento della decisione per vizi della decisione medesima con esclusione di qualsiasi riesame del merito della controversia. In relazione all’arbitrato in tema di investimenti tra Stato e stranieri si è invece scelta una soluzione a mezza strada tra l’adesione a formule più tradizionali di unicità del giudizio e la previsione di un giudizio di secondo grado. Questa seconda opzione non era (e non è) di immediata praticabilità, anche perché si tratta di stabilire se la competenza circa la revisione del merito così introdotta debba essere conferita ad un'altra istanza arbitrale, ovvero ad una Corte internazionale pre-costituita, ovvero ancora ad una giurisdizione nazionale, possibilmente dello Stato ospite dell’investimento. La soluzione prescelta dai due accordi in esame non indica direttamente questa seconda via e opta, invece, per l’istituzione di un Comitato al quale viene attribuita la competenza per indire consultazioni volte ad istituire, se del caso, in futuro un “meccanismo di appello” al fine di rivedere le decisioni rese dal tribunale arbitrale su questioni di diritto.

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Autore:


Manlio Frigo è professore ordinario di Diritto internazionale nell’Università degli Studi di Milano, dove insegna anche Diritto dei contratti internazionali e dell’arbitrato. E’ membro del Collegio dei docenti del PhD in International Law and Economics presso l’Università Bocconi, coordinatore di Diritto internazionale pubblico e dell’Unione europea nel Master Diplomacy dell’ISPI di preparazione per la carriera diplomatica ed è avvocato in Milano.

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