Tassare i redditi o i consumi?


Share on LinkedIn

 e Massimo D’Antoni

Un tema ricorrente nel dibattito di politica economica è l’opportunità di modificare la struttura del sistema fiscale. Nella metà degli anni 90, la Commissione europea lanciò l’allarme sulla crescita del carico fiscale gravante sul lavoro in Europa e la corrispondente caduta del gettito derivante dalla tassazione del capitale. Il fenomeno venne imputato alla concorrenza fiscale innescata dall’integrazione dei mercati dei capitali e spinse l’allora commissario al mercato interno e alla fiscalità Mario Monti a varare una serie di iniziative per il coordinamento dell’imposizione sui redditi di capitale nell’Unione. Nel decennio successivo, il buon andamento delle entrate derivanti dalle imposte sul capitale, in particolare dalle imposte societarie, alimentato anche dai profitti generati dalla crescita della bolla finanziaria e immobiliare, allentò la preoccupazione che tali fonti di gettito fossero destinate a prosciugarsi. L’attenzione dei policy maker si focalizzò sulla tassazione del lavoro che si temeva potesse traslarsi sulle imprese, provocando un aumento dei costi e una conseguente perdita di competitività delle produzioni nazionali con effetti negativi sull’occupazione. La Commissione europea iniziò a suggerire la necessità di ribilanciare il prelievo spostandolo dal lavoro ai consumi (il cosiddetto “tax shift”).

 
Il tema del tax shift è tornato prepotentemente alla ribalta del dibattito politico a seguito della crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008. La scelta europea di imporre la correzione immediata degli squilibri di bilancio provocati dalla crisi si è naturalmente tradotta in un aumento della pressione fiscale. Il problema fondamentale dei policy maker europei è stato individuare fonti di gettito che avessero i minori effetti negativi sulla crescita. In accordo con i suggerimenti della Commissione, la scelta sembra essere caduta sulle imposte indirette. Secondo i dati Eurostat (Commissione europea, 2011), nella Ue l’aliquota Iva ordinaria è mediamente aumentata, nel corso del triennio 2009-2011, di 2,5 punti percentuali, e l’aumento delle accise è arrivato fino a 1,5 punti di Pil (Prodotto interno lordo) in alcuni Paesi. Anche in Italia le manovre varate in successione dal Governo Berlusconi e dal Governo Monti sono state basate soprattutto sull’incremento dell’imposizione indiretta (Arachi e Santoro, 2012).
Ma quali sono i motivi per preferire un’imposizione sui consumi rispetto a quella sui redditi? Che cosa sappiamo sugli effetti che la struttura dell’imposizione può avere sul sistema economico?
 
Per rispondere a queste domande è necessaria una premessa. Nel linguaggio comune, la tassazione del consumo viene solitamente associata alle imposte indirette, quali l’Iva e le accise, mentre la tassazione sui redditi è associata alle imposte personali, come Irpef e Ires. Tuttavia nulla vieterebbe imposte personali che avessero come base imponibile il consumo o la spesa annuale del contribuente. In effetti una lunga tradizione di pensiero, che ha visto fra i suoi esponenti anche Einaudi, ha suggerito di adottare come base imponibile dell’imposta personale il consumo piuttosto che il reddito. Quindi quando ci si interroga sugli effetti di uno spostamento della tassazione dalle imposte sui redditi, per esempio l’Irpef, alle imposte sui consumi, per esempio l’Iva, si affrontano due temi logicamente distinti: a) se sia opportuno utilizzare come base imponibile il consumo piuttosto che il reddito; b) se sia opportuno utilizzare delle imposte che si applicano ai singoli atti di consumo in maniera anonima piuttosto che delle imposte che richiedono di ricostruire l’intero reddito o consumo del contribuente.
 
Per quanto riguarda la scelta della base imponibile, la letteratura economica ha da tempo riconosciuto l’esistenza di una sostanziale equivalenza fra il reddito di lavoro e il consumo. Che reddito e consumo siano legati è cosa ovvia. Tuttavia se si prende come riferimento il singolo anno d’imposta non c’è motivo perché reddito di lavoro e consumo debbano necessariamente coincidere. Un contribuente può tranquillamente spendere meno di quanto guadagna, risparmiando, o consumare più di quanto ha guadagnato, attingendo alla ricchezza accumulata in passato. Gli sfasamenti fra reddito di lavoro e consumo non possono però che essere temporanei. Se prendiamo in considerazione l’intera vita, il consumo totale di un individuo potrà superare il totale dei redditi di lavoro guadagnati solo nel caso in cui abbia ricevuto donazioni o eredità. Allo stesso tempo se il reddito di lavoro complessivamente guadagnato supera il consumo complessivo vorrà dire che il nostro contribuente ha effettuato delle donazioni o lasciato un patrimonio in eredità.
 
Il punto centrale, che vale la pena di ribadire, è che il consumo di una vita (comprese le eventuali donazioni effettuate e lasciti ereditari) eguaglia sempre il solo reddito di lavoro (comprese le donazioni e le eredità ricevute) non il reddito complessivo. Il reddito di capitale, definito come la remunerazione del risparmio, non aumenta il consumo complessivo, ma compensa gli individui per aver posticipato il proprio consumo al futuro.
 
Dovrebbe a questo punto essere chiaro che se si accetta la tesi che reddito di lavoro e consumi sono basi imponibili sostanzialmente simili, la proposta di passare dalla tassazione dei redditi a quella dei consumi equivale di fatto a suggerire la detassazione dei redditi di capitale. Si noti tuttavia che le argomentazioni precedenti suggeriscono l’equivalenza fra consumo e redditi di lavoro solo quando i sistemi fiscali sono a regime. In altri termini, a parità di altre condizioni consumatori e imprese opererebbero le stesse scelte sia in un Paese che colpisce maggiormente il consumo sia in un Paese che tassa relativamente di più i redditi di lavoro. Durante la fase di transizione, invece, un’eventuale riforma che spostasse il carico fiscale dai redditi di lavoro ai consumi non lascerebbe indifferenti i contribuenti. Come vedremo meglio in seguito, se il passaggio cogliesse di sorpresa i consumatori/contribuenti, esso si tradurrebbe in un prelievo sulla ricchezza. In altri termini un aumento imprevisto della tassazione dei consumi produrrebbe una sorta di patrimoniale una tantum. Se la riforma, invece, fosse anticipata per tempo, finirebbe per produrre effetti simili all’aumento del prelievo sui redditi di capitale.
 
Altri effetti importanti possono realizzarsi nella transizione dalla tassazione dei redditi a quella dei consumi nell’ambito del commercio internazionale. Le imposte sui redditi di lavoro gravano generalmente su quelli prodotti in un particolare Paese. Se contribuiscono ad aumentare il costo del lavoro riducono la competitività della produzione domestica rispetto alle importazioni. Al contrario, le imposte sui consumi non discriminano fra produzione interna o produzione estera. Il consumo dei beni importati è tassato allo stesso modo del consumo di beni prodotti internamente e le esportazioni (con l’eccezione dei beni consumati in loco da stranieri) non sono gravati dall’imposta. Il passaggio dalla tassazione del reddito di lavoro a quella dei consumi potrebbe, quindi, aumentare la competitività della produzione domestica con effetti simili a quelli derivanti da una svalutazione valutaria.
 
La conclusione generale: consumo e redditi di lavoro rappresentano basi imponibili sostanzialmente simili e, di conseguenza, il sistema economico non dovrebbe essere influenzato in maniera significativa dalla riallocazione del carico fiscale dal lavoro ai consumi. Una riforma di questo tipo esplicherebbe i suoi effetti solo nella fase di transizione. Tuttavia, il passaggio dall’imposizione sui redditi di lavoro a quella sui consumi comporta non solo l’adozione di una diversa base imponibile, ma anche di una diversa modalità di prelievo qualora si attuasse, per esempio, con una riduzione dell’imposta personale sui redditi (in Italia l’Irpef) e un corrispondente aumento delle imposte indirette, come l’Iva.
 
La differenza più evidente fra Irpef e Iva è che la prima è formalmente progressiva, mentre la seconda ha solo aliquote proporzionali differenziate per categorie di beni. Sarebbe possibile garantire il livello desiderato di progressività del prelievo anche attraverso l’Iva? Come vedremo la teoria economica suggerisce di realizzare la progressività del prelievo attraverso l’imposta personale sui redditi piuttosto che con le imposte dirette.
 
Altre differenze potrebbero derivare dalla gestione delle due tipologie di imposte, come diversi costi di adempimento per i contribuenti e differenti costi di amministrazione per l’erario oppure differenti livelli di evasione. Su questa linea, una tesi che ha avuto una certa risonanza nel dibattito italiano è quella secondo cui lo spostamento di tassazione dai redditi ai consumi consentirebbe di aumentare il carico fiscale su chi evade le imposte sui redditi. Costoro, così si argomenta, dovranno comunque spendere almeno parte del proprio reddito in beni assoggettati a imposta indiretta. Pur in presenza di evasione delle imposte indirette, spostando il peso dell’imposizione sul consumo il carico fiscale dovrebbe essere quantomeno ripartito più equamente, visto che l’evasione dell’Iva o di altre imposte indirette è meno concentrata (vale a dire: un soggetto può svolgere un lavoro che gli consente di evadere interamente o quasi l’imposta sul reddito, ma non può allo stesso modo concentrare il consumo soltanto su beni per i quali è possibile evadere l’Iva). Si tratta di una tesi suggestiva, ma che a un più attento esame risulta errata. L’evasione dell’imposta sul reddito ed evasione dell’Iva, infatti, avvengono quasi sempre in modo contestuale: si evade l’imposta sul reddito non emettendo fattura oppure gonfiando i costi; in entrambi i casi si ha una riduzione del valore aggiunto dichiarato e, dunque, dell’Iva versata. 
 
Print Friendly

Autore:


Università del Salento

1 Risposta a "Tassare i redditi o i consumi?"

  1. Piero Ponti scrive:

    C’è anche un ulteriore aspetto: se si sposta la tassazione sui consumi ci deve essere una contestuale riduzione dell’Irpef altrimenti i non evasori pagherebbero la maggiore Iva OLTRE ALL’IRPEF. Insomma, per avvicinare il trattamento degli evasori a quello degli onesti, coloro a cui viene prelevata l’Irpef dal salario dovrebbero pagarne molta di meno, cioè essere “avvicinati” agli evasori! Solo a queste condizioni si può aumentare l’Iva.

Inviando il commento accetti espressamente le norme per la Privacy.