Mercato comune – Fiscalità separate 9072-7718


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Oggi ogni consumatore può acquistare nei paesi dell’Unione Europea senza oneri doganali né adempimenti burocratici ogni bene (o servizio) lecito.


Quando questo sistema comune IVA è stato disegnato (40 anni fa) ed attuato (20 anni fa), l’idea sottostante era quella di un mercato libero e comune, ma popolato soprattutto di ”grossisti” ed intermediari organizzati. Piccole imprese e consumatori avrebbero di norma continuato ad approvvigionarsi tramite i canali nazionali.
Internet e commercio elettronico hanno stravolto lo scenario del legislatore europeo in materia di IVA: i consumatori accedono direttamente ai venditori comunitari, saltando ogni intermediazione nazionale, e tecnicamente risulta possibile anche a piccole imprese accedere al mercato unico europeo ma non solo.
 

Regole IVA
 

L’IVA dovuta in caso di acquisti dei consumatori nella Unione europea è quella del paese in cui si compera.
La Direttiva IVA UE  attualmente in vigore, la numero 112/2006 prevede una eccezione a questo principio agli articoli  17 e 33: le vendite “tramite cataloghi” si considerino effettuate nel paese di destinazione del bene. Questo significa che ogni società che intenda vendere beni o servizi al consumo in altro paese comunitario deve munirsi di una “partita IVA” nel paese di destinazione a meno che il volume delle operazioni sia talmente basso da risultare inferiore alle “soglie di protezione” stabilite dai singoli stati (35.000 Euro per vendere in Italia).


Oltre tali soglie scattano una serie di obblighi amministrativi e contabili tali da rendere le vendite all’estero simili alla istituzione (sotto il solo profilo contabile e fiscale IVA) di una vera e propria filiale.


I costi amministrativi e di formazione e mantenimento del know-how di tale operazione sono tali da disincentivare l’ingresso nel mercato europeo da parte degli operatori più piccoli, e quindi con volumi tali da non rendere ragionevole il sostenimento dei costi fissi organizzativi per rispettare le previsioni normative.


Paradossalmente è molto meno oneroso per una piccola impresa vendere a clienti al di fuori dell’Unione europea piuttosto che istituire procedure di riconoscimento e “compliance” fiscale nei diversi paesi UE. Nel primo caso, infatti, le procedure fiscali sono assolte dagli spedizionieri con possibilità di addebito al cliente.


I piccoli operatori sono quindi fiscalmente incentivati ad entrare nella rete di vendita dei principali attori del mercato (vedi il caso di Amazon) piuttosto che provare ad istituire reti indipendenti e concorrenti.


Ricordiamo che il regime IVA di libero scambio istituito nel 1993 veniva e viene considerato “transitorio” in attesa di concordare, tra i paesi dell’Unione, una completa armonizzazione di norme ed aliquote d’imposta (cfr. premessa a Direttiva UE 112/2006).


Disparità nelle prassi doganali


Il sistema doganale dell’UE è formalmente unico: unica la classificazione o “nomenclatura combinata” dei beni, unica la Tariffa dei dazi e diritti doganali.


Questo in teoria. Purtroppo le prassi applicative della tariffa (es. quale sia la differenza tra una componente elettronica ed un prodotto finito) non sono univoche tra gli uffici doganali europei e, di conseguenza, non sono univoche i tempi ed i costi sostenuti dalle imprese per lo sdoganamento.


Per esempio uno schermo video che arriva dalla Cina può essere considerato una componente elettronica ad Amsterdam o Marsiglia e un prodotto finito a Genova, con applicazione di diritti e dazi diversi dalla medesima Tariffa.


La “immissione in libera pratica” non ha pertanto gli stessi tempi né costi in tutte le dogane europee, a parità di costo di acquisto e di trasporto. Ovunque siano “sdoganati” i beni possono liberamente circolare nel territorio comunitario senza ulteriori dazi.


Una ulteriore complicazione: le imposte dirette


Il trattamento fiscale degli utili delle imprese è in Europa estremamente variegato, sia riguardo le aliquote nominali applicate dai singoli stati, sia riguardo le particolari prescrizioni o eccezioni, sia riguardo il complesso dei costi amministrativi “indiretti” che le imprese sostengono per la compliance fiscale.
Un indice globalmente riconosciuto lo potete prelevare dal sito della società di revisione Price Waterhouse Coopers  (che mette a disposizione i propri dati alla Banca Mondiale).


Potete divertirvi a comparare le economie censite. I risultati sono estremamente divergenti anche all’interno di aree geografiche omogenee, Come la UE+ EFTA.
I risultati di PWC attestano che il peso fiscale (reddito d’impresa + cuneo fiscale + altri tributi) di Italia e Francia è il 50% in più della media UE/EFTA
 

 

 

 

 

 

 

 


 

Purtroppo per l’Italia, il nostro paese “eccelle” anche per i costi amministrativi (tempo speso) per la compliance fiscale: 269 ore contro una media di area di 179:


 

 

 

 

 

 


 

 

Un aspetto estremamente delicato è il trattamento fiscale delle “royalties” ovvero di quei canoni che sono pagati per un diritto di utilizzo di un brevetto industriale, un marchio o per un diritto d’autore. Si tratta di somme assai più diffuse di quanto si pensi. Un esempio di royalty è ad esempio il canone periodico che un affiliato ad una catena in franchising paga per utilizzare il marchio, oppure che si paga per utilizzare il logo che viene collocato su un sito web o anche il dominio o un particolare software.


In tutti i sistemi tributari l’ingegno e l’innovazione sono più o meno premiati. Nel nostro paese il diritto d’autore delle sole persone fisiche è agevolato (viene tassato solo per il 60-75% come previsto dall’art. 54 comma 8 DPR 917/86).


Pochi sono i vantaggi in Italia per le imprese, e legati ai costi: ad oggi il vantaggio si riduce alla deducibilità IRAP delle spese del personale impiegato in ricerca e sviluppo; a volte è stato concesso un anche credito d’imposta. Il risultato dell’ingegno (proventi da royalties) non è in alcun modo agevolato.


È ragionevole e corretto sotto il profilo contabile  che chi ha prodotto una idea o un marchio ne sia remunerato, ovvero percepisca “royalties”. La differenza nel trattamento fiscale dei redditi individuali o delle imprese, e le particolari agevolazioni previste per le opere di ingegno costituiscono purtroppo un forte incentivo a trasferire utili nei paesi a tassazione più favorevole valutando le royalties a prezzo di trasferimento (di utili) anziché al valore di mercato (“transfer pricing” vs “fair value”).


Se  per l’imposta sul valore aggiunto esiste un sistema comune IVA, anche se l’armonizzazione fiscale è ancora lontana, per i regimi fiscali in materia di imposte dirette sul reddito le disparità di trattamento in ambito UE sono incompatibili con un mercato unico. Lo evidenzia la pubblicazione di PWC.


Internet e commercio elettronico – acceleratore di processi
 

Nel commercio elettronico vengono accelerati ed accentuati alcuni dei problemi evidenziati.


Beni immateriali come il “marchio”( il ”dominio”) e i brevetti (siti, motori di ricerca, e-mail marketing personalizzati, ecc…) diventano fondamentali per attrarre consumatori e proporre loro beni e servizi quanto più possibile personalizzati e/o adeguati alle esigenze e preferenze di consumo.
Il costo fisso di adeguare le procedure amministrative al commercio internazionale è irrisorio per volumi elevati di vendite, considerevole per volumi ridotti.


Il mercato potenziale di una negozio fisico è determinato dal numero di persone che potenzialmente passano nei pressi (“step in”), mentre il mercato potenziale di un negozio virtuale è pari al numero dei soggetti che hanno accesso ad internet ed abitano in paesi per i quali sia legalmente possibile acquistarne beni e servizi. Si tratta evidentemente di differenze in termini di ordini di grandezza della dimensione di mercato.


Una piccola differenza nel trattamento fiscale degli utili, nei tempi di sdoganamento, o nelle procedure IVA ha un impatto determinante per la localizzazione di una impresa transnazionale per natura con un mercato molto esteso. Le imprese dedicate al commercio elettronico ne sono un esempio.
Se ne è resa conto anche l’OCSE, che ha dedicato al “transfer pricing” nel commercio elettronico una particolare attenzione e procedure di individuazione specifiche. 


Conclusioni
 

Con internet e il commercio elettronico è stato realizzato un mercato unico globale di beni e servizi.


A questa situazione di fatto l’Unione europea non è riuscita a fare seguire l’unica reazione possibile: una completa armonizzazione dei sistemi tributari dei paesi aderenti. Il motivo è abbastanza semplice: uno stato che rinunzia al proprio potere impositivo è privato di una parte fondamentale della propria sovranità.


Le frontiere non esistono più per merci, è quindi irragionevole che esistano regimi e prassi fiscali diverse.
Infatti tali differenze accentuano le tendenze a concentrare l’offerta in pochi soggetti localizzati nei paesi a tassazione più leggera rispetto alle due variabili fiscali: pressione e costi amministrativi, con evidenti ripercussioni in materia di concorrenza e di elusione fiscale.
 

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Autore:


Dottore Commercialista dal 1995, Revisore legale dal 1999 e docente aggiunto di Scienza delle Finanze presso l’Accademia Guardia di Finanza di Bergamo, Riccardo Campi collabora con il servizio di Consulenza fiscale di Altroconsumo dal 1998. Ha pubblicato per Altroconsumo la Guida alle attività in proprio, giunta alla 3° edizione. È inoltre componente della Commissione Finanza (Controllo Gestione) dell’Ordine Dottori Commercialisti ed Esperti contabili di Milano.

2 Risposte a "Mercato comune – Fiscalità separate 9072-7718"

  1. patrizia scrive:

    …Ma in questo contesto come si inserisce il dibattito sulla web tax? grazie

  2. Riccardo Campi scrive:

    Buongiorno, sono l'autore dell'articolo. 

    Abbiamo atteso il 17/12 proprio per capire l'estensione della norma, ad oggi già approvata dalla camera dei deputati.

    La risposta è piuttosto lunga, ma cercherò di non scrivere un secondo articolo.

    Nella attuale formulazione la web tax è contenuta, con diverse modalità, ai commi 17-bis e 119-bis e ter del DDL di stabilità appena approvato dalla camera (AC 1865).

    La prima parte dell'intervento prevede che i titolari di partita IVA dovrebbero acquistare dai soli operatori in possesso di partita IVA italiana (nuovo art.17-bis DPR 633/72). Quindi, come accade per gli acquisti dei consumatori, una impresa estera dovrebbbe richiederla ed assolvere l'IVA sulle vendite nel. L'effetto per le imprese è di cash flow, dovrebbero anticipare un'IVA che poi si andranno a detrarre da quella dovuta sulle vendite, o anticipare il pagamento del tributo se non beneficiano della detrazione. 
    Misura che serve al Ministero dell'Economia e delle finanze a anticipare flussi di cassa per un trimestre al massimo e a costo zero. Quindi serve a migliorare temporaneamente e fittiziamente i "conti pubblici" 2014. Quindi beneficio temporaneo dei conti pubblici a danno (temporaneo) dei saldi finanziari delle imprese.

    Nel DDL stabilità esiste una seconda misura  (commi 119bis-119-ter) che attrae a tassazione in Italia i proventi della pubblicità on line, con un meccanismo piuttosto complesso da spiegare e analogo a quello dei "prezzi di trasferimento". I "prezzi di trasferimento" (transfer pricing) sono uno stratagemma adottato dalle imprese multinazionali per spostare gli utili nei paesi a tassazione più accomodante. Per gli interessati è possibile approfondire su http://www.oecd.org/ctp/transfer-pricing/.
    Anche questa norma suscita forti dubbi di legittimità: il concetto di stabile organizzazione, ovvero di entità tassabile in un paese è oggetto di convenzioni internazionali per evitare la doppia tassazione. Per questi accordi la semplice vendita in altro paese non è infatti considerata "stabile organizzazione" e non consente la tassazione degli utili nel paese di destinazione dei servizi.
    La norma avrebbe un impatto di nuovo sui soli utenti professionali, che potrebbero trovarsi a pagare costi più salati per la pubblicità, ed una alterazione del mercato nelle prime fasi di applicazione, favorendo gli operatori domestici come Publitalia, Cairo, ecc.

    Gli impatti sul consumatore di entrambe le norme sono quindi molto mediati e presumibilmente saranno del tutto nulli.

    Non altrettanto per le imprese che si troverebbero per certo ad affrontare un peggioramento dei saldi finanziari determinato dall'anticipo dell'IVA, e un aggravio dei costi della pubblicità on line, sempre che la norma sia considerata legittima secondo gli accordi e trattati internazionali.   

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