I “dati aperti” e la comunicazione come prima barriera alla loro diffusione


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L'utilizzo ricorrente e a volte improprio di termini inglesi per significare concetti, a volte anche banali, si sta rivelando sovente un'arma a doppio taglio. Se da una parte si sintetizza facilmente e univocamente un insieme o un contesto complesso di informazioni attraverso l'utilizzo di un termine, dall'altra si amplia un distacco comunicativo importante con coloro che, oltre a non poter disporre di un vocabolario aggiornato, spesso sono i principali destinatari delle informazioni stesse.


Doverosa premessa per introdurre il tema degli “opendata” (primo e unico inglesismo, in italiano “dati aperti”), che in qualche modo subisce le scorie del problema appena enunciato e destinato a essere sempre più al centro della ribalta mediatica nei prossimi anni. 

 

Parliamoci chiaro: al momento è un argomento di nicchia e gestito come tale. La stragrande maggioranza della collettività non ne percepisce l’importanza. Mi sembra altresì che la concezione distorta più diffusa degli “opendata” risponda all’improbabile spiegazione fornitami qualche tempo fa da un amico che ipotizzò che “saranno dei dati particolari, con informazioni che prima erano riservate e ora vengono diffuse”. 

 

Chiariamo intanto che la genesi degli opendata è abbastanza recente e risponde al nuovo Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), che nel Capo V sancisce che le Pubbliche Amministrazioni hanno responsabilità di aggiornare, divulgare e valorizzare i dati pubblici secondo i principi del governo aperto: un modello gestionale che predilige l’apertura e la trasparenza delle attività amministrative per favorire azioni di sviluppo, controllo e monitoraggio pubblico.

 

Senza approfondire adesso la normativa che sancisce l’obbligatorietà della pubblicazione in formato “aperto”, va sottolineato come l’ambito legislativo viva oggi un passaggio cruciale nella “sperata” sinergia con le previsioni in materia di “Amministrazione Trasparente”.

 

Infatti, le pubbliche amministrazioni sono altresì chiamate a rispondere a disposizioni di trasparenza contenute nel D. Lgs. n.33/2013. I due ambiti, opendata e trasparenza, spesso convergono, anche se permangono alcune anomalie: in primis, a differenza della “trasparenza”, il tema opendata non prevede attualmente un regime sanzionatorio da applicare alle amministrazioni inadempienti, né un ente sanzionatore.

 

In secondo luogo, sempre ai sensi  del D.Lgs 33/2013, viene previsto il pdf/a quale formato base di pubblicazione del dato, in ottemperanza alle disposizioni del predetto decreto. Ciò determina un generale disallineamento con la pubblicazione in “opendata”, che invece si foraggia di formati decisamente più aperti e riutilizzabili quali csv, xml, json, etc.

 

Le PA più pigre (la maggioranza) sono inevitabilmente indotte a erogare dati in formato base  per non incorrere in sanzioni. Di contro, non generando dati veramente aperti e qualitativamente superiori, pongono un freno alla diffusione del riutilizzo dei dati stessi, azione indispensabile per creare valore sociale attraverso applicazioni per smartphone, web, etc.
Possiamo affermare quindi che la pubblicazione base in pdf/a al momento consente ad un utente generico una immediata comprensione delle informazioni, sacrificando però l’aspetto interattivo ed evolutivo del dato. 
L’auspicio dunque è che il legislatore possa velocemente alzare l’asticella della qualità, prevedendo ad esempio la pubblicazione base su due formati, uno destinato alla lettura del cittadino, l’altro ad un riutilizzo tecnico del patrimonio informativo pubblico. Assisteremmo probabilmente ad una esplosione di portali opendata mai registrata prima.

 

Ma torniamo alla comunicazione.

 

Sebbene chi lavora con i dati debba possedere un linguaggio tecnico più o meno dedicato che gli consenta di analizzarli, rielaborarli e restituirli, i benefici della pubblicazione in opendata dovrebbero essere spiegati chiaramente a qualsiasi cittadino di questo mondo, senza incorrere in quel disallineamento comunicativo che sta lasciando fuori grosse fette di cittadinanza.

 

Forse sarebbe tanto utile premettere in ogni trattazione sugli opendata al di fuori delle sopracitate nicchie, che essi sono innanzitutto “dati” e non altro. Per rivolgersi a tutti occorre semplificare. Pensiamo al momento in cui su un banale foglio di carta scriviamo la lista degli invitati del nostro evento: da un lato scriveremo il cognome, dall’altro il numero dei componenti della famiglia. Avremo creato un’informazione a partire da dati grezzi, disaggregati, associando un nome a un numero.
Ogni giorno abbiamo a che fare con i dati, ogni giorno generiamo migliaia di informazioni. 

 

Uno dei più grandi patrimoni di dati, e quindi di informazioni, viene detenuto dalla pubblica amministrazione che oltre a produrli ne gestisce la conservazione e l’utilizzo. Ipotizzare un numero per quantificare questo tesoro è impensabile. Liberare questi dati serve in primis all’amministrazione per conoscere se stessa, per mettere ordine tra decenni e decenni di archivi. E poi ci sono i cittadini, che possono (o meglio “potrebbero”) accedere a tutto questo per ricavare le proprie “informazioni”. I dati infatti (anche i più svariati e apparentemente incompatibili) si prestano ad essere confrontati, legati tra di loro: un set di dati che raccoglie le rilevazioni dei livelli di CO2 nell’aria, dopo essere opportunamente riportati su una mappa può agevolare l’analisi  delle cause dell’inquinamento atmosferico in un preciso contesto geografico; i dati relativi agli immobili in disuso di un comune possono indurre un privato a proporre un riuso o attivare sinergie tali da aumentare l’attenzione mediatica su quel tema sociale.

 

Più i dati si prestano a essere riutilizzati, più sono classificati di qualità. Un dato può essere più o meno difficile da reperire così come può essere elaborato automaticamente da un software. Da questi e da altri parametri, gli opendata vengono catalogati in una scala da 1 a 5 stelle, che Tim Berners-Lee, co-inventore del WWW (World Wide Web), definisce secondo questi criteri:

1 stella – Il dato è disponibile sul web (in qualsiasi formato) ma con una licenza aperta affinché possa essere considerato Open Data
2 stelle – Il dato è disponibile in un formato strutturato che può essere interpretato da un software (per esempio un foglio di calcolo Microsoft Excel al posto di un’immagine scansionata di una tabella)
3 stelle – Il dato è in un formato strutturato (vedi il punto 2) e inoltre questo formato non è proprietario (nell’esempio di prima, CSV è un formato migliore di Microsoft Excel in quanto non soggetto a licenza)
4 stelle – Oltre a rispettare tutti i criteri precedenti, il dato fa uso di standard aperti definiti da W3C (come RDF e SPARQL) per identificare oggetti, cosicché le persone possono far riferimento alle tue risorse
5 stelle – Il dato rispetta tutti gli altri criteri e inoltre contiene collegamenti ad altri dati al fine di fornire un contesto alle proprie informazioni.
Tradotto in italiano qui.

 

Questo breve excursus esplicativo per ritornare al concetto primordiale: occorre creare consapevolezza nella collettività con cognizione, utilizzando strumenti e linguaggi appropriati a raggiungere l'obiettivo.  
In un contesto mediatico che vede un cittadino giornalmente bombardato da migliaia di notizie multidisciplinari farcite da sigle, acronimi e slogan, finche' non si ragionerà in termini inclusivi anche nei metodi di divulgazione, sarà pressoché inevitabile questa distanza insormontabile tra pionieri e potenziale massa critica. Se vogliamo che gli opendata facciano breccia anche tra le pubbliche amministrazioni più chiuse e reticenti, il coinvolgimento della massa quale bacino di consenso a decisioni politiche innovative, è il primo passo da fare.


Non è forse un caso che proprio in questi anni diverse iniziative dal basso stiano proliferando nel territorio nazionale, a sostegno della diffusione degli opendata presso la collettività meno predisposta ai tecnicismi.  Da due anni a questa parte anche gli organi governativi sembrano provare a rimanere al passo inaugurando portali come soldipubblici.gov.it e progetti come "A Scuola di Open Coesione", in cui gli studenti di istituti superiori vengono coinvolti nel monitoraggio di progetti finanziati attraverso politiche di coesione, partendo da una base dati pubblicati in formato "open" sul sito opencoesione.it
Tuttavia, la permeabilità capillare degli opendata sul territorio rimane al momento a "carico" di associazioni, gruppi di volontari e addetti ai lavori. In un connubio di attivisti e collaboratori, sono nate vere e proprie comunità promiscue a supporto delle pubbliche amministrazioni, che al netto di burocrazie pachidermiche provano ad allinearsi agli standard descritti nelle Linee Guida Nazionali sugli Opendata. 


La comunità volontaria appena nata in Sicilia, OpenDataSicilia, proprio di recente ha avviato una serie di incontri formativi, non ultimo quello tenuto con l’Ordine dei Giornalisti di Palermo, in cui sono state illustrate e spiegate le basi del tema e concrete applicazioni nel campo giornalistico. Un passaggio diretto di informazioni con l’obiettivo di sensibilizzare attraverso l’attività pratica, l’applicazione sul campo.

 

L’astrusità della comunicazione rischia quindi di essere il principale problema di una materia che si definisce “aperta”. In questi ultimi mesi mi è capitato di partecipare ad un evento nazionale sugli opendata nel quale la partecipazione è spesso relegata agli addetti al settore. Tuttavia, durante una sessione frontale, un relatore spiegava alla platea (abbastanza eterogenea) l’evoluzione del tema opendata nella propria città. Nonostante il linguaggio adottato fosse abbastanza semplice, l’utilizzo ricorrente di termini non meglio specificati, ha indotto la mia vicina di sedia a supporre che l’Agenzia a cui si faceva riferimento nel discorso fosse quella delle Entrate, anziché la più ovvia Agenzia per l’Italia Digitale. 
Episodi di cattiva interpretazione possono essere riscontrabili anche sul web, soprattutto laddove i siti di opendata vengono concepiti come banali contenitori impolverati di dati anziché come “vademecum” per la comprensione e l’utilizzo di dati. 

 

Se vogliamo progressivamente stanare il tema degli opendata dalla nicchia in cui si ritrova, occorrerà maggiore attività inclusiva nell’approccio e nella divulgazione verso l’esterno, aumentando la capacità di adattamento della terminologia al contesto e rimettendo sempre in discussione concetti apparentemente assodati. 
Gli opendata hanno una grande potenzialità in sé, ma richiedono consapevolezza, affinché anche limiti legislativi possano essere causa comune tra la collettività.

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Autore:


Fondatore e presidente di Mobilita.org, piattaforma web nazionale di informazione dal basso sui temi urbani, con particolare focus sulla mobilità. Nato per favorire la propositività dei cittadini alla vita quotidiana, oggi Mobilita.org conta già due team a Palermo e Catania. Project Manager di "Muovity", progetto di ricerca sulla mobilità sostenibile finanziato dal MIUR nell'ambito del bando "Smart Cities, Communities and Social Innovations". Animatore di comunità, promotore di sperimentazioni utili alla collettività. Nato e residente a Palermo.

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